http://iwallerstein.com/Le scelte impossibili di Obama in Medioriente. Qualsiasi iniziativa di questi giorni del presidente Barack Obama in Medioriente gli attira critiche da tutte le parti. E a ragione, visto che probabilmente non può fare nulla per guadagnarsi il ruolo tanto agognato di decisore e protagonista della turbolente geopolitica mediorientale. Non tutte le sue decisioni, intendiamoci, sono sbagliate. Molte lo sono, altre però sembrano sensate. Il fatto è che praticamente nessuno degli Stati della regione, o che nella regione abbia interessi, è veramente al suo fianco. Tutti hanno le proprie rivendicazioni e priorità, che vengono perseguite anche a dispetto della volontà degli Stati Uniti.

Sono quattro le aree che possono essere definite i punti caldi: Iran, Siria, Afghanistan e Israele/Palestina. I critici, non senza ragione, dicono che in nessuna di queste la politica di Obama è «coerente».

La strategia relativamente più chiara è quella nei confronti dell’Iran. Gli Stati Uniti si sono spesi moltissimo per ottenere un accordo che si riduce essenzialmente a un patto: niente armi nucleari in Iran in cambio del ritiro delle sanzioni economiche. L’accordo è stato davvero firmato e gli apparati legislativi dei due Paesi hanno fatto i primi passi in direzione della sua ratifica. Gli storici un giorno lo potranno considerare uno dei maggiori successi di Obama in politica estera, assieme alla ripresa delle relazioni diplomatiche con Cuba. Questo è Obama il pacificatore.

Tuttavia, l’accordo dev’essere ulteriormente ratificato in vari modi da entrambi i firmatari, e che ciò avvenga è probabile ma nient’affatto scontato. Come spesso si dice a proposito di questo genere di patti, la verità è nei dettagli. I dettagli sono complicati e suscettibili di interpretazioni divergenti da ambo le parti, e le divergenze sono foriere di continue tensioni. Ancora oggi, a quarant’anni dalla stipula di un altrettanto importante accordo in Irlanda del Nord, permangono dissensi su come interpretarne le clausole, e proprio in questo periodo si rischia una rottura definitiva.

La situazione afghana è meno chiara. Sembra che i talebani continuino a rafforzarsi e ad estendere l’area sotto il loro controllo. Gli Stati Uniti hanno inviato truppe in Afghanistan per cacciare i talebani e impedirne il rientro. Dobbiamo presumere che anche il governo afghano voglia sconfiggerli.

Soprattutto, anche l’Iran vuole sconfiggere i talebani, ma i due Paesi non intendono collaborare apertamente per il raggiungimento di tale obiettivo. Inoltre, il governo afghano vuole da un lato affermare la propria indipendenza dagli Stati Uniti, dall’altro ha bisogno di una continua, e anzi crescente, assistenza militare da parte degli Stati Uniti. Sembra che i talebani ricevano aiuti dal governo pakistano, mentre il governo indiano appare desideroso di aiutare il governo afghano più direttamente di quanto gli americani ritengano auspicabile.

La politica statunitense è incoerente perché persegue una serie di obiettivi che interferiscono tra loro. Nell’intento di garantire la stabilità di governo, gli Stati Uniti si sono impegnati a sostenere l’attuale regime afghano. L’apparato militare statunitense insiste, per realizzare tale obiettivo, sulla necessità di schierare altri uomini, tuttavia Obama ha promesso che prima della fine della sua presidenza ridurrà le forze statunitensi a un numero limitato di addestratori non combattenti. Non è possibile fare quello che Obama promette e allo stesso tempo garantire la sopravvivenza di un governo afghano almeno a parole stabile, soprattutto se consideriamo che la sua stabilità dipende dall’andamento di un conflitto irrisolto e incancrenito con i non talebani.

Se poi consideriamo la Siria, «coerente» è l’ultimo degli aggettivi che potremmo applicare alla politica statunitense. Da un lato si è cercato di costruire una «coalizione» internazionale impegnata a sconfiggere lo Stato islamico (Isis, Daesh o Isil) in continua espansione. Ma in teoria gli Stati Uniti si prefiggono anche di destituire Bashar al-Assad. Quello che però non vogliono è impegnare uomini in un’ennesima guerra civile mediorientale. Si offrono invece di combattere lo Stato islamico bombardandone le unità militari con i droni, senza disporre sul terreno di truppe in grado di guidarli. L’inevitabile conseguenza sono i «danni collaterali» che in Siria amplificano i sentimenti antiamericani.

Nel frattempo la Russia si è impegnata a sostenere il regime di Assad, almeno finché quest’ultimo non avrà trovato una soluzione «politica» con la cosiddetta opposizione moderata, che però è composta da una compagine eterogenea. Gli Stati Uniti hanno investito denaro ed energie in quantità per addestrare un nucleo selezionato all’interno dell’opposizione, ma da ambienti militari è recentemente giunta l’ammissione del totale fallimento di tale iniziativa. I gruppi cui è stato dato sostegno si sono quasi del tutto disintegrati; non solo hanno disertato il campo di battaglia ma hanno finito addirittura per cedere le loro risorse ad al-Nusra, un gruppo affiliato ad al-Qaeda che verosimilmente gli Stati Uniti non desiderano sostenere.

Nessuno in realtà sembra disposto ad accettare la leadership americana. La Turchia, più riluttante, ha concesso i sorvoli di aeroplani e droni statunitensi ma ha rifiutato di incoraggiare gli aiuti alle truppe curde che stanno combattendo sul campo l’Isis. Anche l’Arabia Saudita è priva di una politica coerente. Pur in contrasto con al-Qaeda, l’Arabia Saudita la sostiene in qualche modo sia finanziariamente sia diplomaticamente per contrastare l’influenza iraniana in Medioriente. Gran Bretagna e Francia affermano di appoggiare gli Stati Uniti, ma la prima fornisce solo droni e la seconda critica gli americani a causa della loro presunta debolezza nei confronti di Assad. Israele sembra avere le idee del tutto confuse sul da farsi: continua a sostenere che l’Iran è il suo peggior nemico, ma di fatto si concentra sul controllo dei palestinesi, da cui discendono una strategia nella striscia di Gaza e un’altra diversa in Siria e in Libano.

Quanto al conflitto israelo-palestinese, in entrambi gli schieramenti abbiamo assistito a un crescendo di violenze e retorica. Secondo molti commentatori questa sarebbe la terza Intifada, iniziata per alcuni un anno fa. Quale che sia l’etichetta che scegliamo, è evidente che Israele sta, lentamente ma chiaramente, perdendo la battaglia diplomatica in Europa occidentale e persino negli Stati Uniti. Per quanto voglia porre rimedio allo sfilacciamento dei rapporti con Obama, Netanyahu deve guardarsi dal farsi scavalcare a destra. Farà ben poco per cambiare la politica israeliana, come ben poco è ciò che Obama può indurlo a fare. Ad ogni modo, il conflitto israelo-palestinese rimane l’innesco potenziale di un’esplosione dell’intero Medioriente talmente grave da avere ripercussioni sul funzionamento dell’intera economia-mondo, già in condizioni fragilissime.

Se da questa accozzaglia di dati qualcuno riesce a concludere che gli Stati Uniti sono in grado di controllare la situazione e di imporre condizioni a chicchessia, allora vede cose che io non riesco a vedere. Non solo gli Stati Uniti non sono una potenza egemone ma non sono nemmeno i protagonisti in questa regione frammentata. La riluttanza degli Stati Uniti a riconoscere questa realtà è un pericolo per il mondo intero.

 

[Copyright © 2015 Immanuel Wallerstein, used by permission of Agence Global. Traduzione di Giovanni Arganese]