Si naviga a vista: sembra essere questo il senso delle dichiarazioni fatte da Barack Obama nel corso della conferenza stampa tenuta a Lima, dove si trova per prendere parte a un incontro dell’Apec (Asian Pacific Economic Cooperation). Da un lato, secondo tradizione, il presidente uscente ha ribadito che si augura che il suo successore faccia il suo lavoro, per il bene del Paese, e che gli metterà a disposizione la propria esperienza per facilitarlo nel difficile compito che lo attende. Dall’altro, in modo meno rituale, egli si è riservato il diritto di criticare, come cittadino che ha a cuore il proprio Paese, le scelte della nuova amministrazione che apparissero incompatibili con i valori fondamentali della democrazia statunitense. Non è difficile immaginare cosa abbia in mente Obama. Mentre il «presidente eletto» (come si dice negli Stati Uniti) procede negli incontri in vista della formazione del prossimo esecutivo – che significativamente si tengono in buona parte nel grattacielo di sua proprietà – si moltiplicano le voci di chi esprime perplessità, preoccupazione o vero e proprio allarme per i nomi che, secondo le anticipazioni, potrebbero comporlo. A giudicare da quel che si è visto fino ad ora, quella di Trump potrebbe essere una delle squadre di governo più divisive della storia recente degli Stati Uniti, un gruppo di persone che sono in gran parte prive di esperienza di governo a livello federale, scelte da un leader che a volte si comporta come il protagonista di un reality show.

Nella conferenza stampa sudamericana il presidente uscente ha espresso fiducia nel fatto che la realtà porterà Trump a modificare le proprie posizioni, venendo meno ai propositi più estremi manifestati in campagna elettorale. Un cambiamento che, sia pure in misura limitata, forse è già in corso. Verosimilmente egli ripone qualche speranza anche nella «forza di contenimento» delle istituzioni politiche e degli apparati amministrativi. Obama sa per esperienza personale che quello dell’onnipotenza del presidente è solo un mito. Anche il monarca elettivo che regge la Repubblica è soggetto, come qualunque capo di Stato costituzionale, a una quantità di controspinte e di inerzie che ne condizionano e ne rallentano l’azione. Nel caso di un presidente come Trump, questa vischiosità di pratiche e regole può essere una garanzia. Tuttavia, è chiaro che neppure un uomo con una grande fiducia nel progresso, come ha dimostrato di essere Barack Obama, può sentirsi del tutto tranquillo al pensiero di una presidenza salutata con entusiasmo dai gruppi più estremi della destra statunitense (per fare solo uno degli esempi, tra quelli che si potrebbero menzionare, dei segnali inquietanti che stanno accompagnando i primi passi del percorso che porterà Trump alla Casa Bianca).

Non si può escludere, dunque, che Barack Obama interpreterà il suo ruolo di ex presidente in modo inusuale. Se sceglierà di farlo, dovrà muoversi con grande cautela per non innescare tensioni che potrebbero rivelarsi destabilizzanti. La possibilità che i contrasti con Trump emergano sul piano dei principi costituzionali rende la cosa ancora più seria. Anche perché un Partito democratico in crisi potrebbe cadere nella tentazione di proporsi come il partito della Costituzione, aprendo una dinamica di conflitto che nella storia statunitense ha un precedente drammatico nella crisi che condusse alla guerra civile. Ovviamente, molto dipenderà da quali saranno gli equilibri che emergeranno nell’opposizione. Se, per esempio, dovesse farsi avanti la senatrice Elizabeth Warren come nuovo punto di riferimento dei democratici, si potrebbe assistere a uno slittamento verso sinistra parallelo a quello avvenuto nei mesi scorsi nel Labour. Un’ipotesi che aprirebbe scenari nuovi e non necessariamente positivi per le prospettive di breve periodo dei democratici.