La nuova frontiera dell’oro nero. Lo scorso 7 maggio il portavoce di Tullow Oil ha confermato la speranza che molti kenioti nutrono da lungo tempo: le esplorazioni della compagnia britannica hanno riscontrato la presenza di un giacimento di petrolio nella regione del Turkana, all'estremo Nord Ovest del Kenya.

Una frase pronunciata dal ministro dell´Energia, Kiraitu Murungi, in occasione della conferenza stampa con cui è stata diffusa la notizia, riassume i sentimenti contrastanti che gran parte della popolazione prova in questo momento: «ci assicureremo che il petrolio scoperto sia una benedizione e non una maledizione per il popolo del Kenya». Non è necessario guardare all´altro capo dell'Africa e richiamarne i casi più noti, Nigeria e Guinea Equatoriale, per comprendere come una risorsa naturale possa trasformarsi in ciò che gli scienziati sociali definiscono una «trappola dello sviluppo», se non in una vera e propria maledizione. Al di là del confine settentrionale, il Sud Sudan ricorda come l'oro nero, per confermarsi una reale opportunità, richieda certo infrastrutture e capitale economico, ma anche meccanismi di estrazione e di gestione della risorsa che garantiscano almeno livelli minimi di trasparenza ed equità. Segnato da un indice di povertà tra i più alti del Paese, il Turkana è una terra aspra e arida, abitata da popolazioni prevalentemente nomadiche, per le quali la pastorizia rappresenta un elemento identitario, ancora prima che una fonte di (precaria) sussistenza. Acqua e pascolo sono elementi di frequente contesa tra i 27 clan Turkana, tali da condurre a furti di bestiame nei confronti dei rivali e a successivi regolamenti di conti.

Tuttavia, la scoperta di petrolio nel Turkana pone interrogativi ben più ampi dei futuri schemi di distribuzione dei profitti che ne saranno ricavati. In primo luogo, come in numerosi Stati dell'Africa sub-sahariana, l'accesso alla terra per coltivatori e allevatori passa raramente attraverso le formule di proprietà privata e di titoli di proprietà di stampo europeo. Specialmente nelle aree rurali del Kenya, accade sovente che intere famiglie coltivino per generazioni una terra su cui non possiedono alcun diritto formale né pretese di proprietà, ma un accesso, spesso comune, regolato da norme consuetudinarie. Nel contesto della politica nazionale della terra e della nuova Costituzione, dal 2010 le terre non registrate al catasto appartengono allo Stato, che può disporne a suo piacimento, entro i limiti - non sempre invalicabili - della legge. Inoltre, la strada da compiere per giungere alla piena implementazione dei nuovi strumenti normativi è ancora lunga, in particolare per la terza tipologia di proprietà, la community land, prevalente nel Turkana. Né pubblica né privata ed erede della preesistente trust land (letteralmente, terra in affidamento), sarà amministrata dal Comitato per la terra comunitaria per conto di una collettività «identificata sulla base di etnicità, cultura o una simile comunione di interessi». Le potenzialità di tale configurazione della proprietà terriera rischiano di essere offuscate, secondo alcuni, dalle latenti tensioni interetniche e dal timore di future intromissioni della Commissione nazionale per la terra.

Guardando agli ultimi dieci anni, si contano diversi casi di trust land ceduta a privati sotto forma di affitto, persino a un terzo del prezzo di mercato, col conseguente allontanamento di coltivatori, allevatori e abitanti dell'area acquistata. A processi decisionali opachi seguono magre compensazioni, se mai hanno luogo e, soprattutto, la perdita dell'accesso ad acqua dolce, pascolo e terreno agricolo, da cui dipende la sussistenza di molti degli individui in questione. In ultimo, per quanto sopita, è tuttora pendente una controversia internazionale tra Kenya e Sud Sudan riguardo all'inclusione nei reciproci territori del triangolo di Ilemi, la punta settentrionale del Turkana. Una terra verso la quale, in questi giorni, si rivolgono le attenzioni, ma soprattutto i timori, di molti.