In coincidenza con l'avvio della XVIII edizione de I Suoni delle Dolomiti, Valentina Lo Surdo ci propone, con la gentile concessione de "il manifesto", il testo integrale del resoconto della sua esperienza durante la scorsa edizione, quando prese parte al Cello Trekking guidato da Mario Brunello, che sin dagli inizi della manifestazione, nel 1995, è tra gli animatori e ideatori.

Esiste un luogo ideale per la musica? Esiste. E si chiama aria. Uno spazio impalpabile che si palesa definito, reale quando l’aria è silente e vasta, pronta ad accogliere il puro suono.

Accade di comprendere quanto la musica sia fatta di aria e di silenzio se ci si mette in marcia lungo i suoni delle Dolomiti, sulla via del trekking musicale che conduce alle vette del Trentino, con il violoncellista Mario Brunello. Tre giorni nelle viscere della musica, attraverso percorsi di montagna che non prevedono discese a valle, ma solo passaggi in quota, scavalcando valichi e solcando pendici, sostando nei rifugi per poi svegliarsi presto, rimettersi in cammino alla scoperta del paesaggio dell’indomani, con la sua consonanza baciata in una nuova rima musicale. Solo una regola da seguire: lasciare a casa il superfluo. Occhi, orecchie, gambe ben allenate possono bastare, cinque chili di zaino sulle spalle con un sacco a pelo, una mantella, la calzamaglia e un maglione pesante da tirar fuori a 2.500 metri.

Il trekking musicale è il fiore emblematico del bouquet alpino dei Suoni delle Dolomiti, rassegna estiva nata diciassette anni fa per esplorare il Trentino attraverso il linguaggio ineffabile della musica. Un evento atteso tutto l’anno, che diventa esperienza per pochi: sono solo qualche decina i posti disponibili per uno spettacolo intimo e a cielo aperto, che accoglie le esecuzioni di Brunello nei teatri naturali incontrati un po’ per caso, un po’ per scelta, su un tracciato che quest’anno ha attraversato la Val di Fassa. Il cuore bigamo, diviso tra musica e montagna, porta Mario Brunello a giocare di similitudini tra le due passioni, entrambe «non prevedibili, né misurabili, capaci di essere interpretate attraverso infinite vie».

A ogni viaggio chiama al suo fianco un compagno speciale, che stavolta risponde al nome di Nives Meroi, una donna tanto piccola quanto grande, nata sulle Alpi Giulie e cresciuta scalando, sempre insieme al marito Romano Benet, undici dei quattordici 8.000 della Terra, alla maniera antica. Un alpinismo integro, di soli polmoni, non di conquista, né di consumo, ma da gustare nella linea di un fluido salire, per arrivare a cogliere, anche solo per un istante, in vetta, «la consapevolezza di sentirsi parte del tutto». Racconti di montagne grandiosi contrappuntano percorsi diteggiati sulle quattro corde, e si riflettono nei piccoli passi del nostro gruppo, partito da Ciampedie, avviato sul Troi de le feide, messo alla prova al passo del Sofion, e quindi ristorato ai piedi delle Pale rabiose.

Mario Brunello cerca il sasso giusto, sistema la felpa di pile prima di sedersi, sfodera il violoncello dalla custodia rossa, il puntale scivola sulla roccia, graffia la dolomia bianca alla ricerca di un incastro tra i ciottoli. Lo spazio intorno è senza fondo, rotola sconfinato nella Val di Fassa, alle nostre spalle l’anfiteatro dolomitico si arrampica a picco verso il cielo. Un respiro, e via, il tuffo nell’arcata, l’affondo negli abissi di Johann Sebastian Bach. La Sarabanda dalla Terza suite lascia apprezzare tutta l’estensione delle note, suoni lunghi, verticali e orizzontali, che si spengono solo quando si perdono. Quando il loro viaggio si allontana da noi. Traiettorie che non sbattono sulle pareti delle sale da concerto, sono volatili liberati dall’abitudine a inciampare nel limite. Trasportati dall’eco che rimbalza anarchica, planano sulla scia di un vento fresco: unico suono tra noi e la musica. Passa lontano un aereo. Ora un fringuello. Un rivolo gorgoglia lontano, si scioglie un ghiacciaio goccia a goccia. Mentre le nuvole schiacciano le Torri del Vajolet, le note si prolungano in acqua.

Stese sull’erba, accoccolate sulla pietra, immobili in piedi, quarantasei persone sono all’ascolto. C’è qualche bimbo, come Anita, che ha appena compiuto dieci anni; ci sono diversi ragazzi, alcune giovani coppie, ma non solo: Bruno e Annalisa hanno sessantotto e sessantasei anni, e in salita si arrampicano come caprioli. Il tempo non è quello che ticchetta. Il tempo è quello della musica. Ma un tempo esterno a questo viaggio scorre tuttavia, e segna i giorni 7, 8 e infine 9 luglio, sfilati lungo i sentieri del Sassolungo e del Catinaccio.

La bandiera, il segnale stradale che guida la lettura delle partiture di Bach sui profili delle montagne è custodito in un guscio di carbonio rosso fiammante laccato negli stabilimenti di Maranello, un cavallino rampante scintilla all’altezza del riccio, omaggio della Ferrari a riconciliare il rombo con il suono. Issato sulle spalle del suo interprete, ha affrontato i cambi di paesaggio, dai verdi pascoli della Val Duron, ai lunari ghiaioni a strapiombo sotto il rifugio Principe, dal passo del Molignon sino al pian Frataces, auditorium finale dominato dal Sass Pordoi, con il ghiacciaio della Marmolada che occhieggia dal fondo e il Sassolungo che ci guarda la schiena. Il puntale stavolta infilza la terra, ma il legno pregiato del Maggini ha muggito altrove in un abbraccio di pietra, e anche l’erba gli ha accarezzato la cassa. Le nuvole sono divenute sole, la musica è mutata. Le circostanze delle interpretazioni non sono mai le stesse, come la vita che scorre nel cielo.

Bach lascia spazio a un blues fatto di niente: solo un fischio, un colpo del palmo sulla cassa armonica mette in risonanza antichissime onde, che si riverberano tra i larici e i pini cirmoli, sino a raggiungere i rami di quegli abeti rossi da cui il violoncello fu intagliato quattrocento anni fa. La musica di Brunello è tutta qui, essenziale come camminare e respirare. Perché la musica serve a nulla, proprio come afferma la Meroi: «Salire le montagne è un’attività inutile». Un viso che è sorriso, sono luce i suoi occhi, Nives porta con sé la semplice verità di chi ha vissuto l’ascesa fallita al dodicesimo 8.000, racconto drammatico di due solitudini messe insieme, della scelta di restare con il marito in difficoltà invece che raggiungere la vetta. «Come le due facce della medaglia», l’alpinista saluta così I Suoni delle Dolomiti, «io sono anche le montagne che non ho scalato». Come l’istante prima di compierlo, che è importante come compiere il passo. Come la nota, che è anche silenzio.