La crisi politica in Baviera. Nel 1953, al congresso della Cdu, il bavarese Franz Josef Strauß enunciò una sorta di teorema: «Siamo convinti che senza e contro di noi, senza e contro questo blocco cristiano-democratico e cristiano-sociale in Germania non sia più possibile governare». L’affermazione di Strauß conteneva due conseguenze: da un lato il blocco conservatore era e doveva restare il perno del sistema politico tedesco. Ma, al tempo stesso, questo blocco era tutt’altro che monolitico, segnato da due poli: quello della Cdu e quello cristiano-sociale bavarese, la Csu, che non era solo un partito regionale ma rappresentava la condizione necessaria per l’egemonia dei conservatori nella Repubblica federale. I rapporti tra i due partiti sono sempre stati segnati dal conflitto che l’idea di Strauß, potenzialmente, conteneva: la Csu ha tentato sempre di proporsi come “quarto” partito tedesco, puntando a influenzare in modo rilevante la politica del potente alleato. Tant’è che, ad esempio, celebri sono rimasti gli attacchi dello stesso Strauß al cancelliere Ludwig Erhard o le diverse valutazioni di Cdu e Csu sulla Ostpolitik brandtiana.

Si è pensato proprio a queste storiche frizioni quando, nel corso degli ultimi mesi, la Grande coalizione è stata scossa, più che da tensioni tra conservatori e socialdemocratici, dalla aperta conflittualità tra Angela Merkel e il suo ministro Horst Seehofer della Csu, esplosa in estate sulla questione dei rifugiati, che, se registrati al momento del loro arrivo in Europa da un altro Stato membro, proprio Seehofer voleva respingere ai confini nazionali, scaricando così il problema ai vicini. Proposta inaccettabile per Angela Merkel che da tempo cerca di definire un sistema europeo di gestione dell’immigrazione.

È di pochi giorni fa l’ennesima lite nella coalizione, dopo i fatti di Chemnitz: Hans-Georg Maassen, presidente del Verfassungsschutz, è al centro di polemiche perché avrebbe passato informazioni confidenziali proprio sugli eventi che hanno dato il via alla protesta della città sassone. Seehofer ha difeso il funzionario e non ha mancato di lanciare frecciate alla politica di Merkel sui migranti (nel frattempo la Spd ha miracolosamente ripreso in mano l’iniziativa e ha chiesto le dimissioni del presidente Maassen: la vicenda è ormai critica e sarà al centro di una riunione di maggioranza questa settimana).

Cresce, dunque, nuovamente la conflittualità nel campo conservatore, ma questa volta la situazione è più complicata per la presenza sempre più consistente di Alternativ für Deutschland che, ormai, è una forza considerevole nella stessa Baviera, dove si vota il 14 ottobre. Cinque anni fa la Csu raccolse il 47,7%, un risultato che è stato quasi una costante nella storia della Baviera (unica eccezione nel 2008, per una serie di vicende legate alla successione del carismatico leader Edmund Stoiber). Oggi i sondaggi la danno addirittura sotto il 40%, con AfD tra il 10 e il 14%: in questa situazione la Csu potrebbe non disporre della maggioranza assoluta per sostenere il proprio governo e dovrebbe accettare l’ipotesi di una coalizione o di un governo di minoranza. Ovviamente questo contesto ha reso incandescenti i rapporti non solo tra i conservatori di Monaco e quelli di Berlino, ma la stessa Csu è attraversata da polemiche molto dure: lo dimostra, ad esempio, l’aperta ostilità con cui Markus Söder, l’attuale presidente della Baviera e candidato nelle prossime elezioni, ha accolto la crisi estiva sui migranti innescata dal “suo” ministro Seehofer.

Qualcosa di simile è avvenuta in occasione del voto dell’Europarlamento sulla situazione in Ungheria. La Cdu ha votato in massa a favore dei provvedimenti; dei cinque eurodeputati della Baviera, quattro hanno votato contro, affermando che: «Non esistono i presupposti per l’avvio di un procedimento contro l’Ungheria, che ha sino ad oggi accolto numerose richieste della Commissione modificando le proprie leggi. Il rapporto del Parlamento tematizza questioni già affrontate e opera valutazioni politiche di questioni come l’immigrazione e altri temi che non hanno nulla a che fare con un procedimento per lo Stato di diritto». Questa scelta induce a ipotizzare un’ulteriore radicalizzazione del partito bavarese, scegliendo una strada ancor più radicale della Cdu sui rifugiati e sull’Europa e affiancandosi così, plasticamente, proprio all’Ungheria di Orban. Tuttavia non è così semplice: se negli anni Sessanta e Settanta Strauß poteva attaccare tanto le scelte della Cdu quanto quelle della Spd sulla politica estera, sapeva di incarnare un atteggiamento antisovietico e un nuovo nazionalismo tedesco, tutto sommato compatibile con alcune preoccupazioni a Washington e in patria. Una politica che, senza abbandonare una dose massiccia di provincialismo politico, aveva comunque una sua collocazione nel dibattito internazionale. Oggi, per quanto strategici siano i Paesi di Visengrad nell’economia tedesca, l’appiattimento a posizioni estreme sembra non premiare elettoralmente, tantomeno riuscire a delineare una coerente strategia politica di lungo respiro per l’Europa ma nemmeno per la Germania. Tant’è che il capogruppo dei popolari al Parlamento europeo, anch’egli della Csu, Manfred Weber ha votato a favore e, nel suo intervento, ha rovesciato gli argomenti dei colleghi di partito.

Tuttavia, Weber non è un europarlamentare qualunque ma è stato designato quale capolista alle prossime elezioni europee. E non nasconde la sua aspirazione di sostituire Junker alla guida della Commissione europea. Una ipotesi implicitamente avallata dalla stessa Merkel, che proprio in estate avrebbe abbandonato la prospettiva di sostituire alla Banca centrale Draghi con Weidmann e di puntare, per la Germania, proprio alla guida della Commissione. La scelta di un bavarese – tutt’altro che pacifica e osteggiata anche all’interno della Cdu – potrebbe essere la quadra per calmare il riottoso alleato e metterlo di fronte a responsabilità dalle quali non può sottrarsi. Proprio per il contesto internazionale nel quale la Germania si trova oggi, molto diverso da quello nel quale Strauß poteva scommettere su una indipendenza e autonomia dalla Cdu.

Non va dimenticato che nel maggio 2017 Angela Merkel tenne uno dei suoi discorsi più importanti dopo la vittoria di Trump – quello della necessità degli europei di prendere in mano il proprio destino – proprio a Monaco, in un gazebo dove veniva spillata la birra, quasi una festa di paese. Certamente la scelta di Merkel non fu casuale: voleva richiamare a una maggiore responsabilità sul piano internazionale proprio quella parte del Paese che ancora non aveva (ha) chiaro che la questione dei migranti non è solo un "problema da risolvere" ma rappresenta, per la Repubblica federale, la necessità di un mutamento di paradigma. E, cioè, il bisogno di elaborare un nuovo modo di concepire il proprio ruolo nel mondo. E per farlo occorre seguire la tradizione che ha reso possibile nel 1989-90 la riunificazione e, cioè, quella dell’intensificazione della strada europea. Non a caso Merkel in quel discorso non si rivolse né ai bavaresi né tantomeno ai tedeschi ma, senza retorica, agli europei.

Sta proprio in questo la crisi politica della Baviera: l’autonomia politica dalla Cdu con una radicalizzazione a destra del partito non premia, nemmeno elettoralmente. Tuttavia, questa crisi lascia aperta l’instabilità del sistema politico tedesco, chiamato a trovare nei prossimi anni una nuova mediazione che, senza la guida di Merkel, potrebbe rivelarsi, per il campo conservatore, difficile da ipotizzare: più che la Csu a quel punto potrebbe essere la Fdp di Lindner ad approfittarne. D’altro canto, l’immobilità e la rissosità di quello progressista non lasciano ben sperare. Il 14 ottobre in Baviera potrebbe esserci un primo segnale, seguito dalle elezioni europee dell’anno prossimo. Le conseguenze di questi due segnali potrebbero aprire scenari del tutto inediti e imprevedibili.