L’Europa ha cercato di diventare un modello di nuova cittadinanza. È questa una delle ambizioni più nobili del progetto di Unione europea. Teorici e giuristi hanno parlato in proposito di un nuovo paradigma di libertà politica capace di dissociare la cittadinanza dall’appartenza nazionale, una rivoluzione non meno radicale di quella del 1789 se è vero che, come ha scritto Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo, la Nazione ha conquistato lo Stato rendendo la cittadinanza uno status prima di tutto di esclusione. 

Ma messo alla prova del flusso di migranti e della crisi economica, il mito europeo si appanna. Gli Stati nazionali tornano protagonisti, la politica intergovernamentale acquista priorità e con essa le diplomazie bilaterali; le frontiere tornano a chiudersi, le scaramucce di certificati e di rimpatrii si susseguono, i Paesi che si trovani sui confini della “fortezza Europa” diventano avamposti nel respingimento dell’esercito di disperati. Di fronte agli sbarchi dei profughi del mondo, l’Europa non sembra più certa di voler essere il laboratorio di una nuova cittadinanza e affronta il problema dei rifugiati come un problema di sicurezza nazionale e perfino di guerra. Dietro alla giustificata “guerra agli scafisti” e alle mafie che trafficano in esseri umani, si percepisce un nemmeno troppo celato proposito di chiudere le frontiere ai non desiderati. Vi è da riconoscere che se la politica va nella direzione dell’esclsuione, la Corte di Giustizia resta più coerente con i principi e i diritti sui quali riposa l’Unione. E infatti, la decisione della Corte di bocciare la norma italiana (Governo Berlusconi) che prevedeva il reato di clandestinitá va letta come un invito rivolto dall’Europa dei diritti all’Europa della politica di rivedere la strategia sull’immigrazione. Ma a dispetto di ció che l’Europa vuole o non vuole, in un modo o nell’altro i migranti sono ormai parte della sua identitá, di quello che è e sará. Sono il banco di prova del mito europeo e della civiltá democratica e di un modello di nuova cittadianza.

Di fronte agli sbarchi, l’Europa non sembra più certa di voler essere il laboratorio di una nuova cittadinanza e affronta il problema dei rifugiati come un problema di sicurezza nazionale e perfino di guerra

Soprattutto i migranti senza-Stato (Stateless), un fenomeno globale relativo a persone senza una nazionalitá comprovata. Per ragioni diverse: o perché lo Stato dal quale provengono ha cessato di esistere a causa di guerre civili, o perché chi scappa ha dovuto tenere segreta l’identitá per non subire repressione a causa della propria fede religiosa, del genere, dell’etnia. Nell’Europa della prima metà del XX secolo, la pulizia etnica venne realizzata riducendo ebrei e membri di alcune minoranze nazionali allo stato di non-cittadini nei Paesi dove erano nati, con l’esito ben noto di poterli cosí deportare ed eliminare in massa. Senza Stato, ovvero alla mercé del potente di turno: Stateless sta immancabilmente insieme a rightlessness. Da questa riflessione dettata dallo sterminio degli ebrei nell’Europa nazifascista, Hannah Arendt aveva formulato il progetto di rivendicazione del “diritto di avere diritti”.

L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati fu istituita alla fine della Seconda guerra mondiale per aiutare i dispersi europei a ritornare ai loro Paesi di origine. Nata per un tempo limitato, l’agenzia si è espansa e nel 1951 ha istituito un altro programma, quello per i senza Stato. Nel 1954 le Nazioni Unite hanno adottato la Convenzione sugli stateless tesa a prevenire che persone fossero o restassero senza uno Stato. Nel 1961 molti Paesi, tra i quali il nostro e gli altri Paesi europei, hanno sottoscritto la convenzione impegnandosi a garantire la nazionalitá a persone apolidi nate nel loro territorio. Le guerre di liberazione dal colonialismo, le fughe dai Paesi del patto di Varsavia, e poi le guerre dei Balcani, le guerre in Iraq e in Afghanistan, le guerre civili nell’Africa sub-sahariana, le rivoluzioni anti-autoritarie nei Paesi arabi, la lunga guerra civile in Siria, hanno negli anni generato un’aumento prevedibile dei migranti, rifugiati che fuggono dalla fame e dalla violenza e che chiedono asilo. Migliaia di uomini, donne e bambini, per piccoli scaglioni o uno ad uno, a piedi o con mezzi di fortuna pagati a prezzi di strozzinaggio, sono da anni in movimento, scappando spesso dalle guerre che i Paesi verso i quali vanno sono impegnati a combattere.

Messo alla prova del flusso di migranti e della crisi economica, il mito europeo si appanna. Gli Stati nazionali tornano protagonisti, la politica intergovernamentale acquista priorità e con essa le diplomazie bilaterali

I senza-Stato sono una nazione di dieci milioni di persone. Una nazione in negativo che può essere vista come il luogo della completa invisibilità politica capace di dare configurazione a una nuova identitá politica, nata negli interstizi della legge: di quella oppressiva degli Stati di provenienza e di quella che incontrano negli Stati d’approdo, dove sono dichiarati subito illegali. Senza Stato e senza legge: è in questa identitá paronimica che non è impossibile che prenda forma una nuova espressione di identitá politica, di cittadinanza senza-Stato, ovvero non come appartenenza istituzionalizzata ma come azione di auto-determinazione alla libertà; cittadinanza come forma di democrazia nascente in quanto denuncia radicale di una condizione di assoluto assoggettamento, di rivendicazione non semplicemente di diritti umani, ma di diritti civili e politici.

I migranti hanno per convenzioni internazionali i diritti umani fondamentali: diritto al soccorso umanitario e medico. Vita minima: questo significa avere diritti umani. Richiamandoci ancora una volta ad Hannah Arendt e alle sue pagine esemplari, ai migranti non è riconosciuto uno spazio legal-politico, ma solo uno spazio naturale; non è riconosciuto il diritto di organizzarsi ma solo di sopravvivere. Chi fa parte della categoria umana semplicemente è caduto nella natura, se cosí si può dire, fuori della famiglia delle nazioni e dello Stato. Persone senza protezione da parte di un governo, nate nella “razza sbagliata”, perseguitate non perché hanno fatto qualcosa ma perché sono ció che sono. La non esistenza legale –poiché senza documenti – costringe i migranti a farsi politicamente attivi fuori della legge. Ancora da Arendt: il paradosso per gli umani protetti dai diritti umani è che per essere rispettati nei diritti devono diventare oggetto di repressione. Violando le leggi si guadagnano l’ingresso nel sistema della legge e acquistano diritti civili – quello alla difesa nei processi o a un trattamento che esclude violenza e tortura -- che da “liberi” non avrebbero, perché non-cittadini.

La novità di questi ultimi anni, a partire dalla rivolta in Grecia nel dicembre 2008, è che i migranti hanno mostrato di voler usare anche una lingua politica, di volere esercitare una qualche forma di cittadinanza, mettendo in pratica quello che il mito europeo ha predicato soltanto. È accaduto a Rosarno all’inizio del 2010, quando i lavoratori africani stagionali si sono organizzati per reagire alla loro semi-schiavitú. E poi recentemente in Australia, dove in un campo di detenzione piú di trecento migranti hanno deciso di fare lo sciopero della fame per parlare con persone autorizzate del governo australiano e ottenere di non essere rimpatriati in Afghanistan, da dove erano scappati; hanno chiesto interlocutori con autoritá di trattativa, proprio come facciamo noi cittadini quando vogliamo fare sentire la nostra voce. Ma a noi quella voce è concessa dalla Costituzione. A loro è negata, nonostante i diritti umani. In questi casi recenti, pur nella differenza delle circostanze, i migranti hanno manifestato una chiara auto-proclamazione di soggettivitá politica, un passo importante perché un’ammissione esplicita che i diritti umani non danno il potere di contrastare ciò che dallo stato di rifugiati è lecito aspettarsi, ovvero il rimpatrio. Non essere rimpatriati è una richiesta che proviene dall’avere non i diritti umani semplicemente, ma una voce politica.

Ma quale cittadinanza è possibile fuori dallo spazio statale? L’ordine giuridico, anche quello europeo che pure ha l’ambizione di essere sovrannazionale, non contempla un’identità politica al di fuori dello Stato. Eppure questi migranti agiscono come se fossero cittadini, e cosí facendo avanzano una richiesta di diritto politico come esseri umani (reclamano una cittadinanza cosmopolita). È questa novità importante che sta emergendo dai recenti movimenti di migranti senza-Stato. La loro è una sfida importante alle forze progressiste e democratiche dell’Europa, poiché indubbiamente le esigenze ragionevoli di regolare i flussi migratori devono potersi combinare a un progetto che riconosca una dignità di cittadinanza ai migranti, come capacità riconosciuta di proporre e contestare, di trattare e avere una rappresentanza, al di là e indipendentemente dall’appartenenza a un corpo politico. Partire da una lettura non pregiudiziale di queste esperienze è la condizione minima per cercare di trovare soluzioni giuridiche e politiche che diano dignità ai migranti e allo stesso tempo facciano avanzare l’idea di una comunità politica europea che non sia solo un mito.