La vicenda degli insegnanti meridionali che dovranno trasferirsi al Nord per ottenere finalmente un posto di ruolo ha suscitato polemiche dai toni spesso esasperati e iperbolici. È stata anche pretesto, per alcuni, per ribadire un principio ritenuto ovvio. Certo, si è detto, di fronte ad alcuni casi personali possiamo dispiacerci, specie quando coinvolgono persone già attempate, ma bisogna comunque che ci abituiamo all’idea che la mobilità territoriale - cioè la migrazione - specie se interna a uno stesso Paese, è un fatto fisiologico, come sanno le migliaia di giovani che sono già partiti o si apprestano a partire verso nuovi lidi. Questi inviti alla normalizzazione dei fenomeni migratori – al di là del loro uso comunque improprio nella vicenda in questione – ci dovrebbero preoccupare. Sono entrati a far parte del senso comune, ma non dovrebbero esserlo.

In realtà, le migrazioni non sono un fenomeno fisiologico. Sono quasi sempre esito di cambiamenti strutturali profondi dell’economia interna e internazionale, che a loro volta quasi sempre procedono e sono sostenuti da scelte politiche e da condizioni risalenti di squilibrio economico e sociale. L’incremento drammatico della migrazione (legale e soprattutto illegale) dal Messico agli Stati Uniti negli ultimi vent’anni, tanto per fare un esempio noto e accertato, è diretta conseguenza degli accordi Nafta del 1994, che con il libero scambio fra Messico e Stati Uniti hanno portato all’invasione di granoturco sussidiato sui mercati messicani e all’insediamento di industrie che hanno causato danni ambientali irreversibili e affossato le economie locali. I flussi di "lavoratori distaccati" (posted workers) sbalzati da una regione all’altra dell’Europa sono stati l’esito di una normativa in deroga alle tutele e ai livelli salariali stabiliti a livello nazionale. Per fare un esempio più vicino a noi, il saldo migratorio negativo di molte regioni del Sud denunciato anche nel recente rapporto Svimez è frutto di una storia fin troppo nota di cattiva amministrazione dello sviluppo del Mezzogiorno, che continua nel presente ed è ulteriormente aggravata dagli esiti della crisi economica attuale. Spesso i flussi migratori che depauperano intere regioni sono denunciati come sintomo e causa di mancato sviluppo, e preoccupano per ragioni di efficienza economica. Ma sono implicate anche e soprattutto questioni di giustizia e di diritti. L’emigrazione è una bella avventura alla ricerca di nuove opportunità quando è scelta volontariamente. Se si è costretti a emigrare perché non si hanno alternative è una violenza subita, che segna e determina una vulnerabilità estrema. Questo vale per il caso dei migranti che sfuggono da persecuzioni e guerre, ma vale anche per chi è costretto a muoversi per necessità economica.

Ma all’interno di uno stesso Paese la giustizia non richiede solo che l’emigrazione non sia determinata da necessità estrema. Anche quando chi si muove lo fa non perché non c’è di che sopravvivere, ma perché le opportunità migliori sono altrove, c’è qualcosa che non funziona. Se le opportunità e le condizioni migliori si trovano tutte e sistematicamente in certe regioni anziché in altre, o se coloro che emigrano verso l’estero provengono in prevalenza da certe aree del Paese anziché altre, significa che c’è una cattiva distribuzione delle opportunità sul territorio nazionale, e che i cittadini di uno stesso Paese hanno chance diverse a seconda di dove nascono. L’invito a spostarsi non è sufficiente. Emigrare è costoso, ed è tanto più costoso quante meno sono le risorse economiche e sociali a disposizione.

Qualche anno fa un think tank conservatore aveva proposto, come soluzione alla crisi di Sunderland, Liverpool e altre città costiere dell’Inghilterra, che si promuovesse l’emigrazione di massa verso centri più floridi come Londra e Oxford. David Cameron e altri esponenti del partito avevano immediatamente preso le distanze dal rapporto, bollandolo come "folle" e "totale spazzatura". La proposta era fattibile, ma ovviamente oltraggiosa nei confronti degli abitanti delle regioni coinvolte. In questo caso la responsabilità politica dell’esodo di massa auspicato sarebbe stata evidente, perché il piano prevedeva interventi appositi del governo per provocare gli spostamenti. Ma la responsabilità politica rimane anche quando le migrazioni sono effetti collaterali prevedibili di decisioni prese per altre ragioni. Dal momento che sono implicate questioni di giustizia, sarebbe bene tenerlo presente.