Il ministro Bondi dice di volere “meno Stato nella cultura”. Dev’essere dunque stata una circostanza eccezionale quella che l’ha spinto a irrompere nel mercato dell’arte, sborsando tre milioni e duecentocinquantamila euro per assicurare allo Stato un Crocifisso ligneo “di Michelangelo”.
Se si escludono i tre storici dell’arte cui si deve l’attribuzione, e i vertici della Sovrintendenza di Firenze, praticamente nessuno tra gli specialisti di scultura rinascimentale crede che si tratti davvero di un’opera del Buonarroti.

Né lo stile, né la tecnica (l’opera è composta da diciotto parti incollate tra loro), né, soprattutto, la qualità consentono di pronunciare quel nome. Se si aggiunge che esiste un’altra diecina di Crocifissi molto simili (tra i quali due o tre della stessa mano, e altri ancora della stessa qualità, o almeno dello stesso stile), si comprenderà perché l’opinione dei più autorevoli studiosi sia che il Cristo sia uscito da un’ottima bottega di legnaiuoli attiva nella Firenze di fine Quattrocento. Il valore commerciale non dovrebbe superare i centomila euro.

La cosa davvero stupefacente è che, per un acquisto di questo peso, il Comitato tecnico-scientifico e il Ministro non abbiano richiesto formalmente pareri di studiosi terzi rispetto a chi aveva proposto l’attribuzione e l’acquisto. In quale transazione commerciale l’acquirente sceglie di utilizzare gli stessi consulenti del venditore? Su tutto questo indaga ora la Procura regionale del Lazio presso la Corte dei Conti.
Ma perché Bondi si è gettato in un’impresa tanto arrischiata, costruendo intorno a essa una clamorosa operazione di propaganda? La risposta sta nell’iconografia dell’opera. In questa Italia neoguelfa, il ministro ha creduto di rendere un servizio al Governo associando alla sua immagine politica e culturale un così potente simbolo religioso. Non è un caso che l’opera sia stata subito offerta alla vista del papa, officiante il direttore dei Musei Vaticani (lo stesso che, da soprintendente di Firenze, aveva dato il via all’operazione). Se poi si nota che il Cristo è stato esibito alla Camera dei Deputati presieduta da Fini, nella stessa iniziativa che l’anno scorso aveva visto Bertinotti chiedere in prestito il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, il clima da strapaese in cui è maturata la scelta di comprare il Crocifisso apparirà più leggibile.

Come una madonna pellegrina, o come un vessilo sanfedista, il Crocifisso è stato spedito in una chiesa di Trapani, nell’ambito dell’evento Fulget crucis mysterium, per essere poi esposto a Palermo, e ora a Milano, dove ha prosciugato tutti i fondi destinati ai Musei civici per essere esibito accanto alla Pietà Rondanini, in un accostamento davvero allucinante. E c’è quasi da rallegrarsi, a questo punto, che su quel legno Michelangelo le mani non ce l’abbia messe. Ma il danno più grave è quello culturale. Nel silenzio quasi unanime degli intellettuali è passata l’idea di Bondi per cui “è fondamentale destinare le poche risorse disponibili a iniziative che abbiano un significato così alto che possiamo consegnare alle generazioni future”. È vero esattamente il contrario: le prossime generazioni non ci chiedono di votarci al culto di un preteso capolavoro isolato e irrelato, ma piuttosto di dedicare le nostre energie e le nostre scarse risorse a far vivere quel patrimonio artistico diffuso che fonda la nostra identità nazionale.
È dunque più che un sospetto che l’acquisto del Crocifisso “di Michelangelo” sia stato pensato come una foglia di fico enfaticamente posta sull’enorme vergogna dell’abbandono della tutela perpetrato dal Governo e dal Ministro.
“Mentre che ’l danno e la vergogna dura”: è il verso di una poesia di Michelangelo. Quello vero.

(Tomaso Montanari è Professore associato di Storia dell’arte moderna presso l’Università degli studi “Federico II” di Napoli)