Autorevoli esponenti di Camera e Senato fanno a gara nel richiedere la possibile istituzione di commissioni speciali, mono o bicamerali, per seguire da vicino il processo di utilizzo dei fondi europei stanziati nell’ambito del programma «Next Generation Eu».

Da un lato, si afferma così un’esigenza sacrosanta, che è quella di assicurare un coinvolgimento non solo, com’è ovvio, del Governo, ma altresì del Parlamento, e quindi dei rappresentanti di tutte le forze politiche e di tutte le aree del Paese, in un processo decisionale dal cui esito dipende il destino, nel breve, ma anche nel medio e lungo termine, dell’economia italiana.

Dall’altro, però, non si può non segnalare che proprio Camera e Senato risultano «inadempienti» in proposito, non avendo dato seguito a una prescrizione costituzionale che, sin dal 2012, in non casuale coincidenza con l’introduzione della clausola dell’equilibrio di bilancio, obbligava i regolamenti parlamentari a esercitare «la funzione di controllo sulla finanza pubblica con particolare riferimento all'equilibrio tra entrate e spese nonché alla qualità e all'efficacia della spesa delle pubbliche amministrazioni» (art. 5, comma 4, l. cost. n. 1/2012).

Il punto probabilmente è che, a furia di spending review e processi di riduzione della finanza pubblica variamente configurati, le istituzioni italiane sono andate acquisendo, negli ultimi decenni, una notevole capacità di «governo al ribasso» della spesa pubblica al fine di evitare lo sforamento dei saldi prefissati o magari anche di migliorarli (emblematico può considerarsi l’esercizio 2019, in cui il famoso 2,04% in termini di saldo-obiettivo quanto al rapporto deficit/Pil si è trasformato, a consuntivo, nell’1,6%: cfr. G. Tria, Perché adesso non bisogna disperdere quel risultato, «Il Sole - 24 Ore», 3.3.2020). Mentre sono andate contemporaneamente perdendo la capacità di «governare» e di indirizzare la spesa a fini espansivi e di investimento. Una prova lampante di ciò la si è avuta nelle scorse settimane, nell’adozione delle misure per fronteggiare le conseguenze del Covid-19: l’applicazione di processi decisionali analoghi a quelli finora usati soprattutto per ridurre le spese, e al più per introdurre qualche intervento contingente e di dimensioni limitate, al diverso fine di impiegare e distribuire risorse finanziarie ingenti ha dato luogo all’assemblaggio di una serie di interventi «a pioggia», non illuminati da alcuna opzione strategica.

In altri termini, non è certo ricorrendo a decreti-legge omnibus dalla lunga gestazione endogovernativa, dall’impervio cammino parlamentare durante il quale vengono introdotte ulteriori disposizioni («impacchettate» in maxi-emendamenti su cui il governo pone la questione di fiducia), e dalla faticosa implementazione, che si può pensare di utilizzare efficacemente le risorse ora destinate all’Italia dall’Unione europea. Al fine di evitare che questa opportunità, forse l’ultima a disposizione del nostro Paese, vada sprecata, occorre immaginare meccanismi, anche innovativi, programmatici, legislativi e di controllo, in grado di introiettare i vincoli europei, assicurare una adeguata compresenza di soggetti politici e istituzionali, delle forze sociali e dei tecnici, e introdurre i giusti incentivi al perseguimento, da parte di tutti gli attori, di opzioni sostenibili e lungimiranti.

Sul piano della programmazione, la soluzione pare obbligata: appoggiarsi, senz’altro per il profilo temporale e procedurale, agli attuali meccanismi europei, a partire dalla strumentazione del calendario comune di bilancio fino a quelle prefigurate dai nuovi programmi di intervento. Il che comporta, per il profilo contenutistico e di merito, rileggere in chiave italiana le priorità europee (a partire da green economy e digitalizzazione), oltre ad aggiungere le priorità specifiche del nostro Paese. Senza aver paura di partire in modo esplicito da quelle country specific reccomandations, che – a leggerle con un minimo di attenzione – non sono certo occhiute indicazioni provenienti dai «burocrati di Bruxelles», bensì linee di indirizzo politico che qualunque governo dotato di buon senso e non vittima dei veti incrociati dovrebbe perseguire con convinzione, in nome dell’interesse nazionale. Non è un caso che i temi della crescita economica e della riduzione del debito pubblico vi compaiano in modo quasi ossessivo, accanto alla riforma della Pubblica amministrazione, alla riduzione della durata dei processi civili, alla lotta all’evasione fiscale, e così via. Comprensibile pare perciò l’opzione di convocare anzitutto il Comitato Interministeriale per gli Affari Europei-Ciae.

Sul piano della legislazione, occorre invece una discontinuità nel metodo che è stato fin qui largamente prevalente. Limitando cioè drasticamente il ricorso ai decreti-legge e alle leggi di conversione «omnibus», in favore di leggi di delega ben costruite e dalla rapida attuazione, grazie alle quali porre in essere riforme incisive e sistematiche, elaborate con il coinvolgimento attivo e trasparente dei diversi soggetti e interessi in campo. Quello di delega legislativa è un procedimento che, se ben concepito, è in grado di innalzare il livello di razionalità del processo decisionale e di offrire i giusti incentivi per compiere riforme organiche e stabili, almeno nei loro principi di fondo. Al tempo stesso, va restituita alle Camere una qualche capacità di (ri)elaborazione legislativa, che potrebbe essere incoraggiata dal riaccorpamento delle commissioni permanenti e dalla riorganizzazione del bicameralismo che dovranno auspicabilmente fare seguito alla riduzione dei parlamentari che con ogni probabilità deriverà dal referendum costituzionale del 20-21 settembre 2020. Possibilmente coinvolgendo nei processi legislativi le autonomie regionali e locali in modo diretto e sistematico, grazie all’integrazione con loro rappresentanti della Commissione parlamentare per le questioni regionali, in (anche qui, assai tardiva) attuazione dell’art. 11 l. cost. n. 3/2001.

Sul piano, oggi quanto mai decisivo, dei controlli sulla spesa pubblica, infine, proprio il Parlamento dovrebbe farsi parte attiva nella costruzione di meccanismi procedurali innovativi di tipo inter-istituzionale. Non tanto con la creazione di un’ennesima commissione bicamerale, quanto costruendo, in attuazione della già ricordata prescrizione costituzionale, procedimenti obbligatori e trasparenti di valutazione della qualità della spesa pubblica, chiamati a far valere le responsabilità del Governo, nelle sue diverse articolazioni, e delle pubbliche amministrazioni. Procedimenti che non possono non richiedere il coinvolgimento attivo delle strutture tecniche specializzate: a partire dall’Ufficio parlamentare di bilancio, di prossimo rinnovo, e dalla Corte dei conti. In questo modo, grazie alla sponda parlamentare, e all’evidenziazione delle relative responsabilità, potranno sciogliersi più agevolmente quegli inevitabili e atavici contrasti che si registrano in seno al Governo, specie tra Palazzo Chigi e Ministero dell’economia, i quali altrimenti rischiano di posticipare e rendere difficile ogni decisione, specie di carattere strategico.

Come ormai si dovrebbe essere compreso, l’Unione europea, lungi dal sostituirsi ai suoi Stati membri, chiama questi a fornire nuove prestazioni, lanciando sfide inedite ai loro apparati istituzionali (N. Lupo, Il Governo tra Roma e Bruxelles, in Il Governo in Italia. Profili costituzionali e dinamiche politiche, a cura di F. Musella, Il Mulino, 2019, pp. 195-218). L’ultima maratona del Consiglio europeo ha confermato questo assunto. Se l’Italia non si attrezza, e non lo fa subito, rischia di non essere in grado di approfittare di un’inversione di tendenza nelle linee di fondo della politica fiscale europea dettata dalla reazione alla pandemia Covid-19, ma probabilmente di portata epocale.

I prossimi passi saranno quelli decisivi. A partire dal dibattito parlamentare che avrà luogo sulla terza relazione del 2020 sullo scostamento del bilancio, trasmessa dal Governo il 23 luglio scorso. Il dibattito su tale relazione, non accompagnata né dal Documento di economia e finanza (Def), né dalla Nota (Nadef) di aggiornamento del Def, e da approvarsi come sempre a maggioranza assoluta di Camera e Senato ex art. 81, sesto comma Cost. (cfr. R. Ibrido e N. Lupo, Le deroghe al divieto di indebitamento tra Fiscal Compact e articolo 81 della Costituzione, «Rivista Trimestrale di Diritto dell’Economia», 2017, n. 2, pp. 206-250, su), ben potrebbe delineare i meccanismi istituzionali sulla base dei quali i fondi in questione, e quelli prossimi venturi, saranno impiegati, secondo criteri condivisi almeno in parte dalle forze di opposizione. Decisiva sarà poi la sessione di bilancio per il 2021, che, auspicabilmente in presenza di procedure adeguatamente ridisegnate nei regolamenti parlamentari o in apposite pronunce dei presidenti delle Camere e/o delle Giunte per il regolamento, dovrebbe svolgersi – come raccomandato dalla Corte costituzionale nelle ordinanze n. 17/2019 e n. 60/2020 – lungo binari più equilibrati e meno conflittuali rispetto alle due sessioni che l’hanno preceduta.

Non è certo una novità che la politica, specie in Italia, fatichi a compiere scelte di carattere strategico. Né ci si può limitare a sostenere che ciò dipenda esclusivamente dalla qualità della classe politica e parlamentare. È alle istituzioni che spetta stare al passo con i tempi, oggi in profondo mutamento, e porre in essere procedure nelle quali i politici, di maggioranza e di opposizione, siano esposti a incentivi e condizionamenti tali da assumere le decisioni migliori, nell’ambito delle compatibilità esistenti: agevolando così quel processo di recupero della fiducia nelle istituzioni e nella politica che oggi appare quanto mai necessario. Le direttrici di questo percorso sono state già tracciate, e da tempo, da norme di rango costituzionale (quali sono i già richiamati art. 11 l. cost. n. 3/2001 e l’art. 5, comma 4, l. cost. n. 1/2012): si tratta ora di darvi attuazione, in un contesto in cui la coesione nazionale va ricercata con convinzione e costruita con procedure adeguate.