I pensionati di Zapatero. Con un solenne atto alla Moncloa, governo e parti sociali hanno sottoscritto il 2 febbraio un patto sociale che comprende, oltre alla riforma delle pensioni, una dichiarazione d’intenti per rendere più flessibile la contrattazione collettiva, l’adozione di una serie di misure per la creazione di occupazione (specialmente giovanile) e linee programmatiche sulle politiche industriali ed energetiche. Delle quattro parti di cui si compone il documento sottoscritto, che segna il ritorno della concertazione nel paese iberico, la riforma delle pensioni è certamente quella di maggior rilievo. Mantenendo l’impegno preso con l’Europa – non a caso Zapatero ha scelto, per la firma, lo stesso giorno in cui la Merkel si è recata in visita-lampo a Madrid –  il governo, i sindacati dei lavoratori (UGT e CC OO) e degli industriali (CEOE e Cepyme) avevano raggiunto l’accordo sui punti principali della riforma del sistema pensionistico tra la notte di giovedì 27 e l’alba del 28 gennaio. Una riforma sulla quale il governo ha già ottenuto il consenso dei catalani di CiU, dei nazionalisti baschi del PNV, dei canari di CC, mentre il PP ha manifestato la propria disponibilità, in presenza di alcune condizioni, a votarla quando giungerà al Congresso dei deputati, dove l’unico voto contrario sarà quello di Izquierda Unida.

La riforma, che non riguarda gli attuali pensionati e che entrerà in vigore nel 2013, porterà progressivamente, aggiungendo 48 giorni ogni anno dal 2013 al 2027,  l’età della pensione dagli attuali 65 anni ai 67 e gli anni di versamenti dagli attuali 35 a 37 per ottenere il massimo. Oppure a 65, con 38 anni e mezzo di versamenti. Per gli addetti a lavori particolarmente logoranti la soglia resta quella dei 65 anni, mentre ai genitori che abbiano chiesto congedi per maternità e ai titolari di borse di studio verranno riconosciuti fino a un massimo di due anni di versamenti, nel primo caso parzialmente a carico delle aziende. Con due step di cinque anni, l’importo delle pensioni sarà calcolato a partire dal 2023 sugli stipendi degli ultimi 25 anni, anziché su quelli degli ultimi quindici, come avviene ora. Un risparmio di 40 miliardi di euro, pari a 4 punti del Pil, è stato calcolato. Certo, la riforma ha bisogno che la disoccupazione decresca sensibilmente, perché con gli attuali quasi 4,7 milioni di disoccupati, non si vede come possano essere versati i contributi necessari a pagare le pensioni. E le previsioni del FMI sul Pil spagnolo sono al di sotto di quel 2% di crescita che dovrebbe consentire la creazione di nuovi posti di lavoro.

Con tutto ciò sarebbe sciocco non cogliere un segnale fortemente positivo nella riforma. Intanto per il consenso che ha fatto registrare sul piano interno. Poi per la capacità di recupero mostrata dall’esecutivo, che aveva dovuto incassare il 29 settembre uno sciopero generale (il primo dell’era Zapatero) e in particolare dello stesso presidente del governo, che intelligentemente non aveva esasperato il conflitto con le organizzazioni sindacali dopo lo sciopero e che nel rimpasto governativo del 20 ottobre aveva collocato al ministero del Lavoro il dialogante Valeriano Gómez.

Di fronte al governo sta ora la scadenza del 22 maggio con le elezioni in varie Comunità Autonome. All’interno del PSOE c’è chi preme affinché già prima di quella data Zapatero sciolga il dubbio sulla propria ricandidatura nelle politiche generali del 2012. In caso di sua indisponibilità il nome più sicuro è quello di Pérez Rubalcaba, asceso a numero due del governo anch’egli dopo il rimpasto di ottobre, che però difficilmente potrà sottrarsi alle primarie, anche solo per evitare la designazione dall’alto come avvenne nel PP, allorquando José María Aznar scelse, motu proprio, Mariano Rajoy. Incertezze minime su uno sfondo politico trasparente, che fa pensare a come davvero l’erba del vicino sia, a volte, più verde.