Il dibattito avviato su questa rivista a proposito di “Renzi sì, Renzi no” rischia di essere fuorviante perché traduce la discussione in corso sulla riforma costituzionale (con il correlato della riforma elettorale) in una discussione pro o contro Renzi (e come se coinvolgesse solo il Pd, nella sua ala renziana e anti-renziana). Impostare la questione in maniera plebiscitaria può essere ritenuto un utile espediente; ma fare della questione della riforma una questione di conflitto di preferenze sul leader significa mobilitare le emozioni più che le ragioni. E questo confermerebbe, invece che contestare, la natura personalistica della nuova Repubblica: allora, perchè scandalizzarsi se qualcuno parla di cesarismo o di plebiscitarismo?

Credo dunque che non sia “Renzi sì, Renzi no” la posta in gioco. “Renzi sì, Renzi no” è un proxy che sta per (e copre) la sostanza del contendere. Forse questa sostituzione della persona per la cosa può semplificare la discussione – non richiede molto impegno intellettuale esprimere le “ragioni di pancia”, mentre ne richiede comprendere che cosa quelle ragioni di pancia celano: che cosa comporta un Senato eletto per suffragio indiretto dai Consigli regionali, che cosa comporta un premio di maggioranza che crea un organo legislativo meno pluralista, più di sostegno dell’esecutivo, meno adatto a controllare e fermare l’azione della maggioranza. Quel che noi stiamo vivendo non è una battaglia gladatoria pro o contro Renzi. È un mutamento di forma della democrazia parlamentare fondata sul pluralismo partitico (ben argomentato da Peter Mair, tra gli altri), la limitazione dei poteri della maggioranza mediante varie strategie, tra le quali un Parlamento che non è prima e soprattutto sede della maggioranza.

L’appello rituale al “decidere” da parte dei sostenitori di questa riforma è concepito come correttivo del “deliberare”, secondo un refrain classico dei critici della democrazia. Il refrain non dice che la democrazia prende cattive decisioni ma che non riesce a prendere decisoni. Come Salvati scrive nella sua risposta a Luigi Bobbio, tutti vogliamo “buone decisioni” e nessuno è così onniscente da riuscire a partorirle in solitudine o con un gruppetto di amici selezionati. I liberali sanno bene che la limitazione del potere, anche quello cognitivo, è una fattualità che ci dispensa libertà. Sanno anche che deliberare è funzionale al buon decidere proprio perchè nessuno è onniscente. Non è dunque sulla qualità della decisione che verte l’argomento della riforma delle regole del gioco, ma sulla “forma” delle procedure in vista di avere celeri decisioni. Qui sta il nocciolo della critica al sistema palamentare, alle larghe assemble plurali che non decidono. È questo l’argomento che per tutto il Novecento i critici del governo rappresentativo su modello parlamentare hanno articolato, in un modo o nell’altro. Per questo, Hans Kelsen ha scritto – con ragione profetica – che ogni volta che si critica la democrazia parlamentare per la sua incapacità di decidere si critica in effetti la democrazia.

Dietro la riduzione dello spazio della deliberazione in organi collettivi sempre meno plurali, dietro l’appello alla semplificazione dei processi decisionali e del numero degli attori deliberanti ammessi, vi è l’antipatia per il sistema democratico e la volontà di correggerlo mediante il rafforzamento dell’esecutivo o una reintepretazione fortemente maggioritarista della deliberazione. Si tratta allora non di “Renzi sì, Renzi no” ma di “democrazia parlamentare sì, democrazia parlamentare no”. Quella attuale si presenta come una nuova fase di transizione fuori dalla democrazia parlamentare, una nuova versione dell’antica repulsione verso la cacofonia delle democrazie, la loro vocazione partecipativa e ciarliera, la loro idée fixe con le larghe inclusioni nel dibattuto pubblico. Ma la religione del fare e del decidere veloce in un tempo in cui, tra l’altro, gli stati sovrani hanno meno potere decisionale, dovrebbe far dubitare che, per davvero, la decisione sia la ragione del contendere. E by the way: quando la democrazia parlamentare esisteva ha prodotto molte decisioni in tutti i campi, dall’autonomia regionale, alla legislazione sociale e sanitaria, a quella sui diritti civili. La democrazia parlamentare ha deciso tanto. Non è dunque il “decidere” il tema di questa trasformazione istituzionale, ma la restrizione ex ante dello spazio di partecipazione di coloro che possono aver voce: è, per dirla con Kelsen, il pluralismo che è in discussione oggi, perché fa perdere tempo, perché frammenta il luogo decisionale, perché vuole dare al maggior numero, senza previa selezione, la possibilità di avere una voce nel corpo deliberativo, come ha sempre cercato di fare a suo modo la democrazia parlamentare.