Ci sono crocevia duri, quasi surreali, come quello che cerco di aggirare per scrivere di Alessandro Dal Lago dopo di lui. Provo a farlo in termini personali, e a recuperare un mio punto di partenza.

Ho incontrato Sandro la prima volta più di trent’anni fa, alla presentazione a Genova di Descrizione di una battaglia, libro sui rituali del calcio che più che contribuire a proiettarlo fuori dai circuiti accademici (non era necessario) ha indotto molti a guardare in modo diverso le curve degli stadi. Allora ero ancora studente, fuori corso in filosofia, e avevo letto alcuni suoi testi, L’ordine infranto, su Weber e il politeismo dei valori e Oltre il metodo, su sociologia e letteratura. Di quei libri colpiva lo stile, il timbro, la scrittura updated, forse “americana”, e soprattutto uno sguardo irrituale, estroverso, onnivoro, coltissimo. Sandro poteva scrivere o parlare di Salinger e Wright Mills, Lawrence d’Arabia e Simone Weil, Aby Warburg e Randal Jarrell o di John Coltrane e Arrigo Sacchi sempre in modo ineccepibile, facendo comunque a pezzi ogni ortodossia, disciplina o settore (sociologia, filosofia, antropologia, studi culturali), e ogni single-issue. Si poteva restare strabiliati da quello stile, come dal suo modo di gesticolare aggrappato alla cenere incrollabile di una sigaretta o di ascoltare appuntando lo sguardo, incrociando le gambe, aggrottando le sopracciglia. Due o tre anni dopo sarebbe tornato a Genova stabilmente insieme a Giovanna Bettini. E lì avremmo iniziato a frequentarci (con Sandro Mezzadra, Federica Sossi, Agostino Petrillo, Emilio Quadrelli, e in seguito Turi Palidda, Luca Guzzetti, Gabriella Petti, Max Guareschi, Serena Giordano, Augusta Molinari, Federico Boni e molte altre e molti altri) diventando amici. All’epoca non pensavo che lo studio sarebbe diventato una strada, addirittura un habitat. Con lui mi ero laureato e mi sarei “addottorato”: per un lungo tratto, decisivo, mi ha accompagnato. E avremmo viaggiato molto insieme.

Nei primi anni Novanta Genova poteva risultare insolitamente accogliente, aperta. Forse era un miraggio, ma Sandro si era inserito subito in quel clima, sprovincializzandolo e internazionalizzandolo. Partecipava attivamente agli incontri di Città aperta, associazione creata sulla spinta di alcuni amici senegalesi e marocchini inizialmente per opporsi alle politiche di sgomberi e sfratti nel centro storico e quindi per provare ad abitare insieme un’altra città. Ma soprattutto organizzava seminari e incontri che rendevano il dipartimento che dirigeva, la facoltà di cui sarebbe stato preside e più in generale la città intorno un punto di incrocio anomalo, stranamente in anticipo: quegli incontri si prolungavano sistematicamente in cene fuori, in casa, al mare, fino a notte fonda, e si sarebbero depositati in tutta una serie di libri. Sulla scia dei suoi lavori su Simmel, Arendt, Goffman e dell’edizione italiana del secondo volume dell’archivio Foucault, sono nati Lo straniero e il nemico; e soprattutto Non persone, che riassume il senso complessivo di un progetto comune, di un clima politico e di uno sguardo personale, il suo. Lo stesso che lo ha portato pochi anni dopo a vedere nella violenza della guerra e dei confini i tratti costituenti di un ordine globale che si pensava invece orientato alla pace e all’abbattimento di ogni frontiera, e quindi a scrivere e curare una serie di libri, a coordinare progetti di ricerca internazionali, fino a realizzare una rivista incollocabile, “Conflitti globali”, che desiderava diventasse una sorta di objet invisible, emulando operazioni situazioniste. Alcuni suoi testi sono nati così, su percorsi condivisi, accanto a molti altri individuali, conservando sempre un “certo sguardo” – titolo di un anomalo manuale di etnografia curato da lui – mai unilaterale e fossilizzato. Penso ai libri con Serena Giordano sui mondi dell’arte, esplorati in modo obliquo, spurio, anarchico, anche ludico, come fosse un gioco ma serissimo. Questo stesso stile lo ha portato a fondare – insieme a Pier Paolo Giglioli, il suo migliore amico, a Giolo Fele e a Marco Marzano – “Etnografia e ricerca qualitativa”, coinvolgendo un gruppo piuttosto folto e coeso che oggi sente la necessità e la responsabilità di non abbassare quello sguardo. Perché, se esiste una costante nel suo percorso caleidoscopico, un filo verosimilmente rosso ma al di là di ogni ortodossia e oltre ogni metodo o provincia, lo si rintraccia nel modo di osservare con distacco, solidarietà e partecipazione, con lo sguardo di un grande intellettuale cosmopolita, un paesaggio multiforme e in divenire, senza fissarsi o fermarsi mai.

In realtà, anche standogli vicino, non riuscivo a capire bene come riuscisse letteralmente a vedere e quando e dove intendesse fermarsi. Una mattina di venticinque anni fa, dopo una serata protrattasi oltre ogni limite, giunse trafelato a un appuntamento con Turi Palidda e Yann Moulier Boutang per andare a Milano, confessando di vedere strane macchie nere dappertutto: arrivati a destinazione lo portammo al pronto soccorso dove gli diagnosticarono il distacco di una retina, preludio a una serie di interventi delicati e non sempre riusciti, e a una degenza interminabile da cui però, incredibilmente, la sua vista uscì rafforzata. Una quindicina di anni dopo, una sera d’inverno, di ritorno in treno da una riunione della redazione di “Etnografia e ricerca qualitativa” al Mulino, luogo la cui atmosfera polverosa e familiare colpiva entrambi, continuava a tossire, e a parlare, covando una polmonite acuta. Sandro comunque non si fermava.

Negli ultimi due-tre anni il nostro rapporto si è sfilacciato, ridotto a sporadici messaggi in cui da Palermo, dove viveva con Serena, mi informava della sua salute e dei nuovi mondi su cui cadeva il suo sguardo (le saghe nordiche, le arti marziali estreme), e io da Genova su una città dalla quale, in particolare dopo il 2001 e nonostante vi sia rimasto fino al 2014, si sentiva lontano. Sapevo delle sue condizioni critiche, ma anche che non avrebbe smesso fino all’ultimo di viaggiare, leggere, scrivere e guardare. Insieme a una marea di immagini, libri e oggetti (tra i quali un’opera, dono di un artista abruzzese, rimasta incellofanata da più di dieci anni nel suo/mio studio perché avrebbe senz’altro deluso l’involucro), riemergono una vecchia fotografia, una frase e una ricetta siciliana. Condivido solo la prima, la leggerezza e l’intensità di uno sguardo condiviso.