Quando, nel pomeriggio di martedì 7 febbraio, viene diffusa la notizia che Luigi Di Maio, parlamentare del Movimento 5 Stelle, ha compilato un elenco di giornalisti rei di aver scritto alcune dettagliate cronache sulle vicende del comune di Roma e della sindaca Virginia Raggi, e lo ha consegnato all'Ordine dei giornalisti italiani, nessuno obietta che si tratta di un attacco all'informazione ad opera di un vicepresidente della Camera dei deputati. Non lo notano le forze politiche, nemmeno quelle di governo, non lo notano le alte cariche istituzionali, e non lo notano neanche i giornalisti, salvo rarissime eccezioni. Per tutti, grave è che l'onorevole Di Maio sia anzitutto il (potenziale) "candidato grillino per Palazzo Chigi".

Sarà una briciola nello stordimento dell'Occidente nell'epoca della post-truth trumpista, con il presidente degli Stati Uniti in carica che si applica quotidianamente a picconare giornalisti sgraditi e i templi dell’informazione mondiale come il "New York Times"?

Per stare all'Italia che è a tutt'oggi una democrazia parlamentare, una lista, tra l'altro lunga, comprendente giornalisti delle principali testate del Paese e con specificazione degli addebiti caso per caso, e dunque implicitamente chiedendo a un ordine professionale di esercitare funzioni sanzionatorie verso singoli individui per singole presunte effrazioni, è particolarmente grave se l'autore è il rappresentante vicario di un'assemblea legislativa: chi rappresenta con il ruolo di vicepresidente la sovranità popolare, e per giunta nel ramo del Parlamento che è titolare dell'indirizzo politico così come prescrive l'articolo 94 della Costituzione, si scaglia contro i rappresentanti della pubblica opinione. Funzione pubblica, e dunque politica anch'essa.

L'onorevole Luigi Di Maio si è difeso sostenendo che, di fronte alle sue verbali proteste, è stato il presidente dell'Ordine dei giornalisti italiani a chiedergli di metterle per iscritto facendo nomi e cognomi. E questo, oltre a un approfondimento, richiederebbe una riflessione a parte sull'esistenza in Italia di un ordine "regolatore" della professione, esistenza alla quale fu fortemente contrario Luigi Einaudi, preoccupato che il sistema dell'informazione fosse dotato di qualcosa "che alla fine ci sarà solo in Italia e in Uganda"...

Il punto sul quale il "caso Di Maio" fa riflettere è quello dell'interazione tra istituzioni e informazione. Parlamento e informazione sono entrambi, a diversi livelli, istituzioni della democrazia, essendo tra l'altro – ovviamente – la libertà di stampa costituzionalmente prevista. L'informazione è infatti, anche per citare solo Norberto Bobbio, "uno dei pilastri della democrazia", e particolarmente grave è se ad attaccarla è proprio un vicepresidente della Camera. Al quale nulla vieta – a parte l'eleganza e il criterio, dato che si tratta di un parlamentare che si è provatamente sottratto più volte alle domande dei giornalisti – di esprimere opinioni critiche nei confronti di questo o quell'articolo, e ovviamente persino di questa o quella testata o giornalista: ma di certo non può compilare liste nere. Lo sconsiglia, anche, l'articolo 54 della Costituzione quando menziona la "disciplina ed onore" cui devono attenersi i cittadini "cui sono affidate funzioni pubbliche", principio declinato dalla Costituzione materiale nei moderni termini di dignità, imparzialità, indipendenza, leale collaborazione con le altre istituzioni, oltre a serietà e sobrietà nel rappresentare il Paese.

In breve, in quanto presidente vicario della Camera dei Deputati l'onorevole Di Maio non può scagliarsi, come già sarebbe improprio per un "semplice" deputato, contro l'informazione e contro singole testate e giornalisti, addirittura compilando pubbliche liste, e per giunta per perseguire non un interesse collettivo (legato alla sua funzione) ma per tutelare gli interessi della parte politica cui appartiene. È una condotta che crea discredito all'istituzione che rappresenta.

Un precedente con qualche analogia sul punto della dignità nell'esercizio della rappresentanza riguardò nel 2015 il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, che  aveva insultato, paragonandola a "un orango", il ministro dell'allora governo Letta Cecile Kyenge: a parte il clamore mediatico, si discussero per giorni le dimissioni del leghista da Palazzo Madama. L'Aula votò l'autorizzazione a procedere per il reato di istigazione all'odio razziale e, al termine di una procedura fortemente condizionata da contingenze politiche, la respinse. Ma, in quanto alla dignità della funzione istituzionale, Calderoli, oltre a doversi scusare, fu sospeso di fatto per un paio di mesi dall'esercitare il ruolo di vicepresidente del Senato.

Il caso Di Maio, comunque si sviluppi, mostra anche la scarsa consapevolezza che di sé hanno sia i giornalisti sia le istituzioni italiane. Nel retaggio e nell'eco clamorosa di quello che fu il famoso "editto bulgaro" con il quale nel 2002 da Sofia all'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi fu possibile espellere dalla Rai Enzo Biagi, oltre a Michele Santoro e Daniele Luttazzi, il fatto che lo scontro di oggi fra il rappresentante di uno dei poteri repubblicani e la libera informazione non sia stato stigmatizzato né da politici né da giornalisti fa riflettere retrospettivamente: forse allora si trattò di un episodio meramente politico, reazioni indignate ma incastonate in un ben più articolato quadro di violazioni democratiche (leggi ad personam ecc.), e in quell'ampio fenomeno politico che fu l'antiberlusconismo?

Non è inutile chiedersi perché, a parte le proteste degli "incriminati", il silenzio sugli aspetti istituzionali abbia accolto la "lista Di Maio". É purtroppo indice del grado di debolezza delle istituzioni, del giornalismo italiano poco consapevole della propria pubblica funzione – e conseguentemente della responsabilità che ne deriva – e purtroppo anche di una generale anomalia della democrazia italiana: i cittadini non credono nelle istituzioni. E questo ha radici ben più profonde e invasive di quelle dissotterrate dai populismi recenti.