Dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018 in Italia si sono tenute dieci elezioni regionali. Se si escludono i casi particolari della Valle d’Aosta e della provincia di Bolzano, il centrodestra ha vinto in tutte le consultazioni, comprese quelle che, come nel caso dell’Umbria, si sono svolte in contesti storicamente difficili. Che anche in Italia oggi stia spirando un vento sovranista, cioè una diffusa domanda di protezione, a cui i due principali partiti di destra (Lega e Fratelli d’Italia) hanno saputo fornire una risposta efficace sul piano elettorale, è fuor di dubbio. Molto più incerte sono invece le ragioni che stanno dietro a questa lunga serie di vittorie. Dalle ultime elezioni regionali in Umbria si possono però ricavare alcune indicazioni che ci aiutano a comprendere il successo della destra e, di riflesso, la sconfitta del centrosinistra e del Movimento 5 Stelle.

1) Uno o Nessuno. La prima lezione ha a che fare direttamente con l’identità delle forze politiche che si presentano alle elezioni. Per anni ci siamo raccontati “democrazie senza scelta”, dove le sfumature tra i partiti (e i governi) di centrosinistra e quelli di centrodestra erano così impercettibili che agli elettori interessava poco se al governo ci fossero gli uni o gli altri. In fine dei conti sono la stessa cosa, si diceva; facce speculari di una stessa medaglia, una sola unica casta. Il che, per certi aspetti, è stato anche vero, almeno fino a quando non sono piombati sulla scena i tanto disprezzati leader populisti a raccontarci che la globalizzazione non è un dogma, che l’Unione europea non è un mantra, che il multiculturalismo non è un destino, che l’austerità non è una manna. A molti, compresi alcuni studiosi, questi partiti populisti sono sembrati un po’ come quegli ubriachi capitati per sbaglio a una cena di gala, che se ne fregano delle buone maniere e sputano in faccia agli altri ospiti verità scomode che per quieto vivere si preferiva tacere. Ora il re dei partiti mainstream (socialdemocratici, liberali e democristiani) è nudo e pensare di cavarsela innalzando qualche barriera istituzionale o formando Größe Koalitionen sempre più ristrette è solo un modo per rimandare la questione senza risolverla. In una fase di grande trasformazione – e dunque di grande incertezza – gli elettori non sanno che farsene di partiti incerti dall’identità ignota. I partiti con un'identità sicura prevalgono perché offrono mappe chiare, risposte nette e approdi certi. Non è un caso che alle scorse elezioni europee gli unici partiti vincenti siano stati Lega e Fratelli d’Italia: due forze politiche che sanno bene – e altrettanto bene sanno comunicarlo – chi sono e che cosa vogliono. Anche il M5S fino al 2018 sapeva chi e cosa era: un movimento di protesta contro i privilegi della classe politica, spina nel fianco dell’establishment. Ma non appena è diventato anch’esso parte del sistema, l’identità si è smarrita e con essa il suo elettorato.

Sull’identità del Partito democratico c’è poco da dire. perché non esiste. Intrappolato fin dagli esordi nell’ambiguità del “ma anche”, oggi si trova del tutto ai margini rispetto a un elettorato che chiede certezze e punti cardinali. Pensare che l’unione di due incertezze identitarie – perché questo era il “patto civico” giallorosso in Umbria – potesse convincere gli elettori incerti era molto più che un wishful thinking. Dunque, la prima lezione che si ricava dal voto regionale è semplice: in tempi turbolenti, meglio essere Uno, chiaro e riconoscibile, piuttosto che Nessuno o, peggio ancora, un assemblaggio di Centomila proposte senza identità.

2) De Coubertin non abita più a sinistra. In passato, nelle elezioni locali, per la sinistra l’importante era (far) partecipare, il che spesso implicava quasi automaticamente la vittoria alle urne. L’elettorato del centrosinistra era infatti tradizionalmente meno mobile e più mobilitabile rispetto a quello di centrodestra, e quindi in tempi di affluenza calante bastava riuscire a riportare i propri elettori al voto per garantirsi il successo. Gli scienziati politici parlano, a tal proposito, di “mobilitazione asimmetrica”: se una parte consistente dell’elettorato avversario se ne sta a casa, a trarne vantaggio è lo schieramento con il seguito più fedele. L’esempio dell’Emilia-Romagna di cinque anni fa, quando solo il 37,7% degli aventi diritto si presentò alle urne per decretare le vittoria (in discesa) del centrosinistra, calza a pennello. Ma pensare che oggi si replichino le stesse dinamiche significa non aver osservato attentamente che cosa succede nelle altre democrazie europee, dove la recente crescita della partecipazione è spesso innescata dal surplus di mobilitazione prodotto dai partiti più radicali; e non avere guardato al voto europeo o regionale in Italia, in cui al crescere dell’affluenza aumentano anche le probabilità di vittoria per il centrodestra. Oggi sono i partiti di destra, soprattutto Lega e Fratelli d’Italia, il volano della partecipazione per la ragione già ricordata: senza un orizzonte di senso o un motivo chiaro per il quale valga la pena uscire di casa per andare alle urne, senza una identità ben definita, vengono meno anche le ragioni della partecipazione. La seconda lezione che ricaviamo dal voto umbro è quindi che per il centrosinistra e ancor di più per il M5S oggi più che mai l’importante (per vincere) è partecipare, ma la partecipazione è una pianta delicata che merita attenzioni costanti.

3) Digitale et impera. Se c’è una legge nella politica italiana è che la sinistra si trova sempre un passo indietro rispetto ai suoi avversari nelle dinamiche della comunicazione. Prima con Berlusconi e la comunicazione moderna che passava attraverso la televisione, dalla quale si preferiva restare a distanza di sicurezza per evitare pericolose contaminazioni con la cultura nazional-popolare. Poi è stato il turno di un comico allevato dalla tv che, grazie all’expertise di un techno-guru come Casaleggio, ha sfruttato le potenzialità del web 1.0 per costruire la sua rete di attivisti sparsi nei meet-up locali. Anche in quel caso la sinistra osservava da remoto, con un sentimento di superiorità che sconfinava nello snobismo. Da ultimo è arrivato Salvini, che si muove nel sistema ibrido e integrato dei media come uno squalo nell’acqua. Nella comunicazione del leader della Lega la tv è un’appendice, il web 1.0 un ricordo e il territorio soltanto uno sfondo. Che ci sia o non ci sia una fantomatica “bestia” alla cabina di regia, poco importa. Salvini riesce a sfruttare in pieno quella che potremmo chiamare la two-step flow of communication nell’era digitale. La prima fase del flusso ha una logica classica, quasi televisiva, one-to-many, dall’uno ai molti: il leader comizia e i seguaci plaudono. Qui tutto rimane locale, racchiuso nel contesto del comizio, un corpo-a-corpo tra il politico e i suoi fan. È con la seconda fase che la comunicazione diventa virale e si estende many-to-many, dai numerosi presenti che con i loro smartphone amplificano e rilanciano, diretto e immediato, il messaggio del leader. Nel frattempo, i follower si sono fatti a loro volta opinion leader, nodi di una rete di comunicazione capillare che salta rapidamente dal locale al digitale. E mentre scrosciano like, ditoni e retweet sulla diretta Facebook di Salvini, apprendiamo da un quotidiano che – dopo il flop dell’app “Bob” (do you remember?) che doveva modellare un “nuovo ecosistema digitale” del Partito democratico – è in arrivo la nuova Pd App, con la promessa di costituire, al costo di 1 euro, una “agorà virtuale” per registrarsi online e discutere ogni provvedimento. Il tempo passa, ma il centrosinistra resta sempre all’inseguimento della storia. Mentre Salvini si proietta nel web 3.0, rendendo sempre più labile il confine tra reale e digitale, il Pd arriva in ritardo a progettare un’applicazione dove online e offline sembrano mondi separati non comunicanti. Ecco la terza lezione dall’Umbria: tutto ciò che è digitale è reale; e ciò che è reale è digitale. Chi si ostina a non fare i conti con questa realtà, è destinato al cupio dissolvi.

4) L’eterno ritorno del territorio. Non sono ancora del tutto chiare le ragioni, ma è da circa un decennio che abbiamo capito che ci sono luoghi che si sentono abbandonati e messi ai margini da grandi processi di modernizzazione economica e tecnologica. Le piccole realtà rurali, le aree colpite dagli effetti della de-industrializzazione o le zone a concentrazione manifatturiera aggredite dalla concorrenza globale sono finite nella categoria dei places that don’t matter, luoghi che non contano e che non aspettano altro che arrivi il momento elettorale per scaricare sulle élite che contano la loro frustrazione. In passato c’era la politica, declinata organizzativamente attraverso i partiti, ad attutire il colpo e a incanalare la protesta così come la partecipazione. Il controllo del territorio rientrava tra i compiti del partito, soprattutto nelle aree subculturali (comuniste o democristiane), inclusa la rossa Umbria. Poi si è pensato che l’organizzazione territoriale fosse un peso di cui doversi sbarazzare in cambio di una personalizzazione telediretta: il partito leggero, variante del partito liquido, era il nuovo idolo da venerare. Ma non si è trattato soltanto di una ritirata organizzativa, è venuto meno anche il profilo ideologico che inquadrava il comportamento elettorale all’interno di una comune coscienza di classe in grado di unificare territori vicini e lontani. Scomparso (o fortemente indebolito) il controllo territoriale e ideale, l’unica coscienza collettiva in grado di guidare il comportamento degli elettori è rimasta quella legata al proprio luogo di residenza, alle proprie radici territoriali di appartenenza. Una coscienza, o una comunità, che si rafforza man mano che aumentano le minacce alla sua sopravvivenza, siano esse legate ai fenomeni di spopolamento, di trasferimento industriale o di arrivo di soggetti stranieri. Il voto di appartenenza ha dismesso così il suo abito partitico e ha indossato la “felpa” di ogni territorio, l’unico brand ancora in grado di suscitare qualche sentimento (o risentimento) di adesione a una causa collettiva. È a questi territori e a questi elettori che la Lega propone la sua offerta di rappresentanza attraverso una politica della presenza, un ritorno al territorio che è solo un pallido ricordo del radicamento organizzativo di un tempo, ma è comunque quel che di meglio passa il convento. Anche in questo caso Umbria docet: nei comuni delle aree interne (due terzi sul totale) la Lega ha ottenuto il 36% dei voti, mentre nei centri urbani la percentuale è crollata – si fa per dire – al 25%. Possiamo discutere se quella della Lega sia la soluzione ai problemi dei luoghi marginal(izzat)i, ma di sicuro è l’unica risposta alla domanda di attenzione e tutela che arriva da quei luoghi. Eccoci, quindi, all’ultima lezione che possiamo ricavare dal voto umbro: il territorio conta, soprattutto nei luoghi che non contano. Liquidate le grandi identità politiche, non c’è rimasto che rifugiarsi nelle piccole patrie locali come fonte primigenia di appartenenza. E ai partiti non resta che scegliere tra il soffiare sulla nostalgia delle comunità in declino oppure immaginare nuove identità collettive in grado di disegnare percorsi di ripresa. La prima strada è quella percorsa con successo dalla Lega che, fin dai suoi esordi, ha battuto con efficacia sul tasto dell’identità territoriale. Se qualcuno vuole tentare la seconda alternativa, è bene si armi di tanta pazienza e di una nuova, possibilmente coerente, lettura delle trasformazioni della società.