Il tema della rappresentanza è tradizionalmente connesso a due poli di riferimento: da una parte la dimensione elettorale, dall’altra quello della partecipazione. Si tratta di una relativamente recente forzatura concettuale, che affonda le sue radici nella relazione «democrazia-elezioni» che, come ampiamente messo in luce da numerosi studiosi, è anch’essa una forzatura. E finanche un grimaldello ideologico per poter affermare l’insorgenza di una nuova «aristocrazia» legittimata però dal voto popolare.

Il concetto di rappresentanza appare molto prima della sua declinazione parlamentare. E anche quando esso si applica ai parlamenti, funziona spesso come giustificazione della situazione esistente (storicamente, del potere nobiliare o monarchico). Il rapporto fra rappresentanza e democrazia, quindi, è tutt’altro che scontato.

In tempi recenti, tre tendenze principali si sono evidenziate nella crisi della rappresentanza democratica. La prima è data dall’incremento dell’apatia sociale: si tratta di un fenomeno da sempre presente nelle democrazie liberali, strutturale e peraltro ampiamente studiato. La seconda tendenza è speculare alla prima e si risolve nella richiesta per un controllo maggiore sulle istituzioni rappresentative da parte della cittadinanza (che è anche l’ennesima evidenza della crisi della rappresentanza). La terza tendenza si muove su un versante diverso ed è costituita dalla richiesta di nuove forme di partecipazione politica. In questo ambito, si collocano sia lo sviluppo di piattaforme e tecnologie capaci di facilitare forme diverse di partecipazione politica, sia le molte e diversificate forme di cittadinanza attiva.

Uno snodo fondamentale è qui costituito dal concetto di cittadinanza, che a sua volta è soggiacente alle idee di rappresentanza e di democrazia. E se la cittadinanza come «status», che è alla base sia dei fondamenti della democrazia rappresentativa sia del «mito» della democrazia diretta, mostra chiaramente i suoi limiti, la più recente idea della cittadinanza come «conoscenza civica», che si sviluppa a partire da una prospettiva diversa e fa da presupposto al concetto di democrazia partecipativa, può costituirne una fruttuosa evoluzione.

All’interno di questo scenario, da ormai un paio di anni si parla sempre più frequentemente di disintermediazione. Con ciò si intende quel fenomeno per cui istituzioni e soggetti della democrazia rappresentativa e di mandato – così come del circuito parallelo della rappresentanza degli interessi organizzati – sono preda di un’irreversibile crisi di funzione e ruolo, a seguito dell’instaurarsi di un rapporto sempre più diretto e immediato/non mediato fra decisore pubblico e società civile.

Due sono le principali caratteristiche del concetto di disintermediazione, almeno nel contesto politico: 1) l’eliminazione, o la sostanziale irrilevanza, di soggetti intermediari (i «corpi intermedi») ovvero partiti politici e associazioni di interesse; 2) l’insorgenza di forme di coordinamento diretto fra la domanda e l’offerta di beni pubblici, cioè provvedimenti legislativi e politiche pubbliche ad essi connesse. Caratteristiche che in ambito economico assumono una connotazione positiva, in ragione del fatto che il coordinamento spontaneo di mercato, realizzato attraverso il prezzo, massimizza i benefici fra domanda e offerta, minimizzando o neutralizzando gli attriti – per così dire – dello scambio, ovvero i cosiddetti costi di transazione. Ma ciò che vale per il mercato non è detto valga per altre arene sociali, come per esempio quella politica, dove non esistono forme di coordinamento spontaneo e i costi di coordinamento delle transazioni sono abitualmente coperti da soggetti che svolgono una funzione di raccordo e sincronizzazione della domanda (identità e interessi) con l’offerta (programmi e politiche), principalmente partiti politici e associazioni di interesse.

Possiamo approssimare, in qualche modo, il funzionamento della disintermediazione politica a quello per certi versi più efficace della disintermediazione economica e di mercato? Se ammettiamo la possibilità di una qualche forma di convivenza fra disintermediazione e democrazia rappresentativa, e se riteniamo che tale convivenza possa consentire un riequilibrio nel processo democratico rispetto agli effetti più negativi della disintermediazione – che riguardano soprattutto l’insufficiente accountability e le straordinarie asimmetrie informative fra cittadini e governanti –, allora un primo terreno di innovazione politica implica l’introduzione di trasparenza, regolazione e concorrenza nel processo democratico stesso. Andrebbe quindi superata l’opposizione dialettica, e spesso sterile, fra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, al fine di arrivare a un’idea di open government, caratterizzata da trasparenza, partecipazione, collaborazione.

Ma le nuove forme di partecipazione non possono fondarsi esclusivamente su regole di contorno ispirate a trasparenza, regolazione e concorrenza. Esse infatti si sviluppano entro un processo di collaborazione, che richiede attori sociali almeno in parte autonomi, capaci di produrre un negoziato anche informale (o non solo formale), in modo da creare congiuntamente regole e strutture che portino a decisioni specifiche sulle issue all’origine della loro mobilitazione. Condizioni molto esigenti e non scontate, se pensiamo che fra le conseguenze della disintermediazione vi è il fatto di produrre relazioni fortemente individualizzate, nelle quali le etero-referenze, fondamentali per la formazione delle identità collettive, rispetto sia all’identificazione sia alla propria differenza, sono molto deboli, quando non addirittura inesistenti.

La democrazia nell’epoca della disintermediazione si prospetta quindi come una sfida non semplice, dove nuovi processi deliberativi – costruiti anche con il supporto di Internet e delle nuove tecnologie – possono contribuire a ristabilire fiducia fra governati e governanti, a patto che riescano a contrastare il narcisismo solipsista di chi nella democrazia dei social media trova esclusivamente il terreno più fertile per l’affermazione di identità e interessi incapaci di entrare in relazione con le istanze di altri.

 

[Questo articolo riprende i temi del saggio di Luciano M. Fasano, Massimiliano Panarari e Michele Sorice, Mass-media e sfera pubblica. Verso la fine della rappresentanza?, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2016]