A chi segue la campagna elettorale in corso, a chi ascolta le promesse con le quali i concorrenti a cariche di governo cercano di conquistare il voto dei potenziali elettori, è probabile torni alla mente un vecchio sogno, quello di una «epistemocrazia», di un governo dei saggi e dei competenti: insomma, una versione aggiornata di aristocrazia, del governo dei «migliori».

È un sogno regressivo, che fa a pugni con l’idea stessa di democrazia: come identificare oggi i saggi e competenti, se si escludono le inaccettabili ragioni di preminenza economica e sociale che identificavano gli aristocratici di ieri? E come assicurarsi che prenderebbero le decisioni di governo più favorevoli alla comunità nel suo insieme? In una democrazia a suffragio universale tutti sono corresponsabili delle scelte elettorali che hanno fatto e non possono che incolpare se stessi qualora la scelta risulti sbagliata. In altre parole: il criterio che rende legittimo un sistema liberal-democratico è insuperabile.

Se di fronte alle fandonie demagogiche che ascoltiamo nei talk show è concesso di sognare, è meglio accontentarsi di un sogno più modesto: quello in cui almeno una buona parte dei cittadini-elettori sia diventata un poco più colta, interessata al bene comune, discriminante, e non beva le fandonie demagogiche dei politici con la facilità con cui sembra berle oggi.

Sempre di un sogno si tratta, ma coerente con l’ideale democratico e non impossibile da realizzare in un lontano futuro: in un contesto di maggior benessere e minori tensioni, con il miglioramento dell’istruzione e qualche correttivo epistemocratico, la democrazia potrebbe funzionare meglio e ridurre un poco i rischi demagogici cui è inevitabilmente soggetta.

Per ora le cose sembrano piuttosto lontane anche da questo sogno più modesto. E ciò ha una conseguenza inevitabile. I politici che vediamo nei talk show non sono tutti incapaci o incompetenti, inconsapevoli dei gravi problemi che il nostro paese deve affrontare. Molti non lo sono. Ma tutti desiderano vincere le elezioni. E se sono convinti che per vincerle una buona dose di demagogia è indispensabile, che un ottimismo esagerato è un dovere e la verità è un optional, che parlare di sacrifici necessari è un tabù, anche i politici migliori si adatteranno all’andazzo dei talk show: illustrare agli elettori lo stato effettivo del nostro Paese, le misure che devono essere prese per migliorarlo, non è cosa semplice e per essere compresa richiede conoscenze che una gran parte dei nostri concittadini non possiede.

Insomma, la moneta cattiva della demagogia, di una eccessiva semplificazione dei problemi, del ricorso a espedienti retorici che si rivolgono alla pancia più che alla testa, tende a scacciare la moneta buona della verità e della riflessione. Ed è per questo che chi si sforza in un tentativo pedagogico e cerca di dire la verità è normalmente visto come un non-politico, incapace di assolvere al primo compito che un vero politico deve affrontare, quello di raccogliere consenso. Che poi il «vero politico» si dimostri – se cerca di realizzare le sue promesse – un cattivo governante è un problema che verrà affrontato una volta vinte le elezioni: le scuse per non avere realizzato quanto ha promesso sono infinite e verranno spesso bevute da chi gli ha dato fiducia.

Dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose? Forse sono stato troppo pessimista a rappresentare gli elettori come ho fatto: è vero che molti, presi dalle preoccupazioni della loro vita quotidiana, irritati dai comportamenti dei politici e degli amministratori pubblici, e in possesso di strumenti inadeguati a valutare la complessità del governo, possono accedere a proposte di cambiamenti radicali e illusori, al «tutti a casa» dell’antipolitica. Ma anche in queste condizioni non sono pochi coloro che sono in grado di valutare l’onestà, la competenza, la sincerità del politico che chiede il loro voto.

Qualche giorno fa ho visto in azione Paolo Gentiloni a «Che tempo che fa», il programma di Fabio Fazio: non ha nascosto di essere di parte, ma ha esposto le sue ragioni con una grazia, precisione e ironia che raccomanderei a chiunque, di qualsiasi parte politica. E che non richiedeva grandi conoscenze economiche e politologiche per risultare convincente. A questi elettori, e ai politici che sanno interpretare la loro domanda di verità, sono affidate le mie speranze di un risultato non troppo negativo nelle prossime elezioni.

 

[Questo articolo è uscito sul «Corriere della Sera» l’11 gennaio 2018]

 

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