Le elezioni parlamentari greche del 7 luglio scorso sono state presentate da molti come "un ritorno alla normalità". Si è trattato del primo test elettorale a livello nazionale da quando, nell’agosto scorso, la Grecia ha abbandonato il suo terzo piano di salvataggio Ue/Fmi. Per la prima volta dal 2009, un solo partito ha ottenuto la maggioranza assoluta, mettendo fine alla successione di cinque governi di coalizione (e quattro diverse coalizioni di governo) che il Paese aveva sperimentato a partire dal novembre 2011. A vincere è stato il partito della Nuova democrazia (Nd), uno dei due pilastri del sistema politico pre-crisi. Tale risultato appare particolarmente rilevante perché mette fine all’esperienza di governo che aveva riunito la sinistra radicale di Syriza con l’estrema destra dei Greci indipendenti (Anel), in opposizione ai piani di salvataggio europei. A seguito del voto, i neonazisti di Alba dorata non sono stati rieletti e sono rimasti fuori anche tutti i nuovi partiti entrati in Parlamento nell’ultimo decennio. Dopo sette anni di profondi sconvolgimenti politici interni seguiti allo scoppio della crisi del debito sovrano nel 2009, è possibile ritenere che, con queste elezioni, la Grecia abbia ritrovato una qualche stabilità?

La manifestazione forse più spettacolare della crisi è stato il collasso del sistema dei partiti nelle elezioni del maggio 2012. In quell’occasione, a seguito dell’impossibilità di formare un governo il Paese tornò a votare solo sei settimane più tardi. Gli effetti di tale impasse politica hanno continuato a manifestarsi nel tempo, se si considera che da allora i cittadini si sono recati alle urne altre tre volte, di cui due a distanza di tempo ravvicinata (gennaio e settembre 2015). Per capire se gli effetti della lunga crisi stiano svanendo occorre guardare al voto del 2019, da cui emergono chiari segnali di discontinuità. Questa elezione, tenutasi con un anticipo di soli di due mesi rispetto alla naturale scadenza, ha dato al partito della Nd una maggioranza di otto seggi e la possibilità di formare un nuovo governo in grado di svolgere il proprio mandato a tempo pieno.

Il secondo effetto politico derivante dal periodo di crisi riguarda la forma assunta dal sistema partitico. Sin dai primi anni Ottanta, le due formazioni principali ottenevano sistematicamente circa l’80% dei voti. Nel 2012 si ebbe un drastico aumento della frammentazione, con i due partiti vincitori in grado di raccogliere solo un terzo dei consensi. A partire da quella elezione, nelle successive consultazioni il sistema bipolare ha mostrato segni di ripresa, ma solo nel 2019 è apparso più evidente un ritorno al sistema bipartitico (71% dei voti per il primo e il secondo). Se questa tendenza sarà confermata o meno dipenderà dalla legge elettorale: uno schema di rappresentanza di tipo proporzionale, approvato dal precedente esecutivo, si applicherà solo dalle prossime elezioni, a meno che una maggioranza parlamentare di due terzi non accetti di introdurlo prima.

Il terzo cambiamento avvenuto riguarda i partecipanti al sistema partitico. La riduzione del bipolarismo aveva consentito il successo parlamentare di nuovi partiti nel 2012 e nel 2015: Alba dorata, i Greci indipendenti, due partiti centristi e la sinistra democratica. Tutti e cinque sono ora fuori dal Parlamento, quattro dei quali a seguito delle elezioni del 2019. I nuovi partiti che li hanno sostituiti sono Soluzione greca, formazione di estrema destra filo-russa, e MeRA25, una formazione di sinistra radicale guidato dall’ex ministro delle Finanze Yiannis Varoufakis. I sei partiti del nuovo Parlamento sono meno numerosi degli otto del periodo appena precedente, ma sono ancora in numero maggiore di ogni altro Parlamento pre-crisi. La continua ricerca di "facce nuove" sta a ricordare che l’elettorato non è affatto soddisfatto dell’attuale offerta politica.

Nonostante ciò, i quattro partiti eletti nelle legislature pre-crisi sono rimasti tutti in Parlamento. Le elezioni del 2019 hanno confermato la loro capacità di resilienza. Inoltre, ha trovato conferma anche un ulteriore importante risultato: la ridefinizione degli equilibri tra le tre formazioni della sinistra. Per oltre trent’anni, il Pasok è stato uno dei due protagonisti del sistema partitico greco, mentre nell’ultimo Parlamento prima degli anni convulsi del cambiamento, Syriza risultava nettamente minoritario. Con le elezioni del maggio 2012 i rapporti di forza sono cambiati: superando il Pasok, il partito di Tsipras ha conquistato la leadership a sinistra, con un vantaggio che si è ulteriormente ampliato nelle elezioni successive. Anche se nel 2019 Syriza ha perso la sfida del governo, è riuscito comunque a consolidare la sua posizione come uno dei due poli del sistema partitico greco. Il risultato ottenuto è stato inferiore di 8,4 punti percentuali rispetto a quello della Nd (31,5% vs 39,9%), ma solo 4 punti percentuali al di sotto del dato precedente. Questo significa che Syriza continua a rappresentare un attore imprescindibile per una futura rimonta governativa da parte della sinistra. Con il 31,5% suggella la sua superiorità schiacciante (quasi quattro volte più forte) sul Movimento per il cambiamento, l’attuale reincarnazione del Pasok. Per questo partito, le elezioni del 2019, hanno segnato ancora una volta il passaggio allo status di attore secondario, con un risultato a una sola cifra percentuale. Un ritorno anticipato al governo come partner minore di coalizione non si è concretizzato a causa della vittoria definitiva di Nd. Il suo risulto elettorale solo marginalmente positivo (dal 6,3 all’8,1%) e il fatto che abbia superato Alba dorata come terzo partito del Paese sono piccole consolazioni. Al contempo, anche il KKE ha continuato a perdere voti e centralità politica (da 8,5% nel maggio 2012 a 5,3% nel 2019), entrando nella pletora della formazioni minori. Questo esito è stato certamente rafforzato dal rifiuto di contemplare qualsiasi tipo di partecipazione al governo.

Mentre le elezioni del 2012 hanno avuto un impatto duraturo sulla sinistra, la ristrutturazione del polo di destra è apparsa più precaria. Sette anni fa Nd aveva ottenuto il suo risultato peggiore di sempre: un 18,9%, oscurato dal 20,5% dei tre partiti dell’estrema destra. L’equilibrio tra l’area di voto per partiti di destra mainstream (29,7%) e di destra estrema (16,0%) si era già spostato in favore del primo nel giugno 2012 e questa tendenza è proseguita nelle elezioni successive completandosi nel 2019, con una chiara riconquista della leadership da parte di Nd (con il 39,9%). Gli sfidanti dell’estrema destra si sono rivelati quindi effimeri, a differenza di Syriza. la loro debacle può essere attribuita a due ragioni principali. La prima è il discredito gettato su Alba dorata dalle accuse mosse alla sua leadership di omicidio e gestione di un’organizzazione criminale. La seconda ragione ha a che fare con la risoluzione della complessa questione macedone con l’accordo di Prespa. L’incapacità di bloccare tale esito e la conseguente rottura della coalizione di governo si è rivelata fatale per i Greci indipendenti di Anel. Nel frattempo, con tutta evidenza, il ruolo di spicco della Nd nella mobilitazione nazionalista contro Prespa ha aiutato il partito a riconquistare l’egemonia a destra. La maggiore visibilità dei rappresentanti di orientamento più estremo nel nuovo governo sta a ricordare che Nd si è in qualche modo allontanata dalle posizioni centriste assunte dell’ultimo decennio pre-crisi.

Le elezioni del 2019 segnano un ulteriore passo avanti rispetto alla fase politica precedente. Non solo hanno prodotto un governo monopartitico che, molto probabilmente, rimarrà al potere per i prossimi quattro anni; ma hanno anche indicato una chiara ridefinizione del sistema partitico attorno a due attori principali. Tuttavia, una delle parti è cambiata e la distanza ideologica tra i due poli del sistema è più ampia che nell’era pre-crisi. Infine, non bisogna dimenticare che una quota significativa dell’elettorato ha scelto di voltare le spalle al sistema partitico nel suo complesso. L’astensione, che in precedenza non era mai andata oltre il 29%, durante il periodo della crisi ha raggiunto i suoi massimi storici, toccando il picco del 43,4% nel settembre 2015. Le ultime elezioni del 2019 non hanno portato alcun cambiamento positivo: il dato, stabile, dei non votanti al 42,1% rappresenta il secondo valore più alto mai raggiunto alle elezioni parlamentari nazionali.