1.029 nel 2017, 1.133 nel 2018, più di 100 dall’inizio del 2019.

Vite spezzate dal lavoro: nelle fabbriche schiacciate dalle presse, sui tralicci e sui ponteggi folgorate da scariche elettriche, nei campi travolte da rimorchi e trattori, nelle cave inghiottite da sabbia e terra, nei cantieri precipitate dalle impalcature, sulle strade accartocciate in macchine e furgoni.

A riportarci a questa strage permanente, che ha lasciato sul terreno quasi 13.000 morti in soli dieci anni, è Mai più, un documentario realizzato da Antonio Pacor e Bettina Gozzano, sulla tragedia della Lamina Spa, fabbrica che produce nastri di acciaio e titanio nella Milano moderna ed europea, a pochi chilometri dalla stazione centrale. A uccidere per asfissia i fratelli Arrigo e Giancarlo Barbieri e i colleghi Marco Santamaria e Giuseppe Setzu è stato l’argon, un gas inerte utilizzato nella fabbrica. A non funzionare sono stati i sistemi di sicurezza, in particolare il sensore che avrebbe dovuto far scattare l’allarme.

Gli operai della Lamina sono quattro dei 786 lavoratori morti nel 2018 per infortuni sul lavoro. Sulla base dei dati Inail, sono le regioni del Nord – in testa Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto – ad aver pagato nel 2018 il prezzo più alto per infortuni mortali sul lavoro con il 40,8% sul totale nazionale. A seguire sono le regioni dell’Italia meridionale e centrale, con delle percentuali pari rispettivamente al 30,4% e al 28,7% del totale nazionale. I settori economici dove si registra il maggior numero di infortuni mortali sono le costruzioni, le attività manifatturiere e il trasporto e magazzinaggio. Gli infortuni mortali colpiscono principalmente lavoratori nelle fasce di età comprese tra i 55 e i 64 anni (34,4% del totale) e tra i 45 e i 54 anni (29,4% del totale). Si tratta quindi di lavoratori adulti, con esperienza lavorativa pregressa, la cui maggiore esposizione al rischio è legata soprattutto al grado di deterioramento fisico e psicologico prodotto dal lavoro e dall’invecchiamento. 

Dei 786 infortuni mortali registrati dall’Inail nel 2018, 669 riguardano lavoratori di nazionalità italiana e 117 lavoratori di nazionalità straniera; in quest’ultimo caso si tratta prevalentemente di rumeni, albanesi e marocchini occupati nel settore delle costruzioni e delle attività manifatturiere. I numeri assoluti non descrivono con precisione la maggiore vulnerabilità degli immigrati rispetto al rischio di infortuni, sia perché queste cifre andrebbero rapportate alla forza lavoro immigrata complessiva, sia perché spesso molti casi di infortuni mortali che vedono coinvolti gli immigrati non vengono denunciati. Sono inoltre sempre più frequenti i casi di occultamento di cadavere o di simulazione di incidente al di fuori del luogo di lavoro che riguardano lavoratori immigrati.

Quella degli infortuni mortali è una vera e propria mattanza alimentata da competitività, precarietà e modelli sempre più flessibili di organizzazione del lavoro e della produzione. La salute e la sicurezza dei lavoratori, ossia la protezione contro gli incidenti e le malattie professionali, sembrano essere sempre più subordinate alla salute dei bilanci e alla sicurezza del profitto aziendale.

Tra le cause principali di infortuni mortali vi è anche l’assenza di informazione e di formazione dei lavoratori. Le catene di appalti e subappalti in cui si riassumono i processi di esternalizzazione, nonché il proliferare di contratti a breve durata, fungono da motore di accelerazione di rischio, poiché le imprese hanno uno scarso interesse a investire nella formazione alla sicurezza di lavoratori che nel giro di pochi mesi non saranno più alle loro dipendenze. Inoltre, la crescente competizione internazionale e la corsa al ribasso sui costi di produzione, spingono sempre di più le aziende ad intervenire pesantemente sulla produttività aziendale imponendo una riorganizzazione del lavoro e del processo produttivo attraverso interventi diretti sui metodi di lavoro, sui turni, sulle pause e sugli orari al fine di recuperare competitività ed efficienza. L’intensificazione dei ritmi lavorativi, in risposta alle pressioni competitive, incide in modo significativo sullo stato di salute psico-fisico dei lavoratori, mettendo a rischio la loro incolumità dentro e fuori i luoghi di lavoro.

La protezione dei lavoratori contro incidenti e malattie professionali non può essere quindi ottenuta solo attraverso il potenziamento dell’attività ispettiva; essa richiede necessariamente la promozione e la diffusione di una cultura della sicurezza. Promuovere questo tipo di cultura significa affermare senza tentennamenti che la sicurezza è una responsabilità sociale, un dovere dell’impresa verso i lavoratori, essa va sempre rispettata e non può essere in alcun modo subordinata al profitto. In aggiunta occorre formare e sensibilizzare i lavoratori ad adottare comportamenti sani e sicuri negli ambienti di lavoro, rendendoli consapevoli dei rischi e creando le condizioni per l’esercizio da parte di questi ultimi di un’attività di vigilanza costante sul rispetto delle norme da parte dell’azienda. Infine, cruciale è il problema delle risorse da predisporre e destinare a piani di investimento finalizzati alla riduzione del rischio. Per finanziare la revisione delle tariffe Inail, e quindi alleggerire gli oneri a carico delle imprese, le risorse destinate ai piani di investimento per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro hanno subito, per scelta del nuovo esecutivo, un taglio di 410 milioni di euro per il triennio 2019-2021.

 

Nota: L’Inail distingue i casi di infortunio mortale sul lavoro sulla base di due modalità di accadimento: “in occasione di lavoro” e “in itinere”. I dati menzionati e quelli che seguono fanno riferimento esclusivamente ai casi di infortunio mortale in occasione di lavoro (786 nel 2018).