È ormai assodata l’importanza del cinema come filtro attraverso cui leggere la realtà, o meglio decifrare il modo in cui i registi (quindi la platea di riferimento) la interpretano. Sempre in cerca di soggetti appetibili al vasto pubblico, la Settima arte si è avvicinata molte volte alla scuola, perno dello sviluppo intellettuale di ogni Paese e luogo dell’immaginario collettivo, al punto che quando si guarda un film di ambientazione scolastica risulta facile immedesimarsi nell’esperienza dell’aula, da tutti condivisa nelle diverse fasi della vita. Eppure, nonostante il dettagliato realismo di alcune pellicole, è facile percepire deformazioni (ampliate dalle immagini in movimento) figlie di luoghi comuni radicati, cui si sovrappongono proiezioni mentali individuali degli spettatori.

Partiamo dal cinema delle origini: a Torino sono realizzati Il calvario di un maestro (Ambrosio, 1908) e Il soprabito del maestro (Ambrosio, 1911), ritratti realistici ma emotivamente ricattatori della precaria condizione giuridica e delle difficoltà economiche degli insegnanti, temi caratteristici di gran parte della produzione filmica successiva, da analizzare in maniera diacronica per comprendere come l’immagine del docente si sia modificata nel tempo.

Dopo l’oscurantismo rappresentativo del fascismo, che annacquava le problematiche educative nel brio della commedia dei telefoni bianchi (Maddalena… zero in condotta, Vittorio De Sica, 1940), e un secondo dopoguerra pieno di fiducia verso un’istituzione in grado di agevolare la strada del progresso (Mio figlio professore, Renato Castellani, 1946), cominciano le prime avvisaglie di una crisi. Con Il maestro di Vigevano (Elio Petri, 1963), interpretato da Alberto Sordi (dal romanzo di Lucio Mastronardi), prende forma il personaggio dell’insegnante frustrato, insoddisfatto della propria posizione ed escluso dai vantaggi pecuniari del boom economico. È una figura drammatica che trova uno sviluppo nelle pellicole del post contestazione, quando alla «scuola dei padroni» si sostituisce quella del disincantato, ben rappresentata dai film tratti dai lavori di Domenico Starnone: La scuola (Daniele Luchetti, 1995) inaugura un filone contraddistinto da docenti di scarsa qualità che svolgono un lavoro pseudo impiegatizio, tra compiti da correggere, burocrazia invadente, grotteschi confronti collegiali, una mancanza congenita di risorse e studenti difficili, figli del disimpegno post ideologico.

Dopo l’oscurantismo rappresentativo del fascismo e un secondo dopoguerra pieno di fiducia verso un’istituzione in grado di agevolare la strada del progresso, cominciano le prime avvisaglie di una crisi

Il confronto/scontro generazionale è un altro elemento di continuità nei film di ambientazione scolastica; il prototipo nobile è da ricercare nell’interessante Terza Liceo (Luciano Emmer, 1954), che pone al centro della fabula un gruppo di giovani divisi tra le frivolezze dell’adolescenza e l’impegno scolastico, rappresentato anche nella realizzazione di un giornalino in cui pubblicano articoli sulle difficoltà di interazione con docenti retrogradi, sulla riforma dei metodi di insegnamento e degli antiquati programmi. In qualche modo la pellicola anticipa fermenti che prenderanno forma il decennio successivo, ma negli aspetti più leggeri, purtroppo, fa da apripista al filone del «sexy scolastico» che demolirà sistematicamente il sistema educativo.

Il repertorio caricaturale dei docenti, dalla cariatide di storia piena di acciacchi a quello di greco e latino soprannominato Gengis Khan, presta il fianco a quella dimensione stereotipata apprezzata dal pubblico generalista, che partecipa attivamente alla rievocazione del mito scolastico avvicinandolo ai ricordi individuali: nel proprio percorso scolastico chiunque ha incontrato almeno un professore la cui autorità è stata minata dai lazzi dei compagni più agitati. Sono figure difficili da cancellare, che si sovrappongono prepotentemente a quelle dei bravi maestri; è così che nascono pellicole come L’insegnante (Nando Cicero, 1975) e La liceale (Michele Massimo Tarantini, 1975), piene di studenti dagli ormoni impazziti, supplenti procaci e un corpo docente che sembra uscito da un circo degli orrori (ci sono sadici, iettatori, satiri, balbuzienti e addirittura qualche nostalgico del fascismo). Si tratta di commedie scollacciate e triviali in cui i motivi della contestazione e della liberazione sessuale si perdono in un pericoloso spirito antistituzionale e goliardico, che troverà il suo apice negli anni Ottanta con i vari Pierino interpretati da Alvaro Vitali. Fa sorridere pensare che la maschera cinematografica di Pierino deve in qualche modo la propria origine al grande Federico Fellini che in Amarcord (1973) ritagliò il ruolo di studente proprio ad Alvaro Vitali, associando l’attore a quel ragazzino impertinente che lo renderà un’icona.

La pellicola di Fellini è la ricostruzione, filtrata attraverso la memoria del regista, della vita quotidiana di un gruppo di coloriti personaggi nel contesto degli anni Trenta; una sequenza del film è dedicata alla scuola, luogo che ben si adatta a un discorso centrato sulla vena favolistica del ricordo. In pochi minuti si susseguono studenti annoiati pronti a sbeffeggiare gli adulti e professori di età avanzata pieni di tic o evidenti difetti fisici, esempi di sterilità didattica e aule fatiscenti dai muri scrostati… Con poche correzioni questa rappresentazione esasperata si potrebbe benissimo adattare ad altri film, più moderni e orientati al realistico; la scuola in celluloide difficilmente riesce a staccarsi dallo specchio deformante del ricordo/rievocazione, vive in una sorta di dimensione mentale: ne è dimostrazione il successo di Notte prima degli esami (Fausto Brizzi, 2006), ambientato alla fine degli anni Ottanta e strutturato attorno alla maturità, momento di passaggio all’età adulta per generazioni di studenti. L’anno seguente Notte prima degli esami - Oggi (Fausto Brizzi, 2007) ripropone gli stessi protagonisti e lo stesso soggetto, ma adattandoli al contesto temporale odierno; significativi sono i primi minuti quando si mostra l’attore protagonista (Nicolas Vaporidis) affrontare l’Esame di Stato in versione Balilla (1938), Teddy Boy (1954) e Figlio dei fiori (1974). Al di là dell’originalità dell’operazione, che trasformò il film in un format esportabile, tanto che i francesi ne realizzarono un remake/clone (Nos 18 ans, Frédéric Berthe, 2008), quello che salta agli occhi è come la scuola appaia un luogo intergenerazionale, un’ambientazione quasi astorica in cui si consumano sempre gli stessi riti.

Se il cinema è veramente uno specchio di ciò che ci circonda, allora la rappresentazione della scuola riverbera una realtà immobile nel tempo e nello spazio. Ma di questo riflesso non tutto è negativo

Questo meccanismo di scollamento dalla quotidianità scolastica, contraddistinto dallo scarso interesse al suo reale funzionamento e dall’utilizzo delle aule come mera scenografia per parlare d’altro (primi amori, insofferenza verso l’autorità, scontro tra vecchi e giovani), si trova anche in pellicole più recenti come Arrivano i prof (Ivan Silvestrini 2018), quasi una fotocopia (per inquadrature e caratterizzazioni) del francese Les profs (Pierre-François Martin-Laval, 2013). Il fatto che la cinematografia scolastica, che tratta un argomento specifico della realtà di ogni Paese, possa essere esportabile e apprezzabile anche all’estero, è un ulteriore spunto di riflessione; se il cinema è veramente uno specchio di ciò che ci circonda, allora la rappresentazione della scuola riverbera una realtà immobile nel tempo e nello spazio. Ma di questo riflesso non tutto è negativo: se il mito dei bei tempi andati è poco plausibile, se le innovazioni tecnologiche e le nuove metodologie poco cambiano della sostanza, i film ci insegnano che la vera essenza della scuola, oggi come ieri e a qualsiasi latitudine, sono le persone che la vivono, dagli studenti ai docenti.