Vengono dalle elezioni sarde segnali contrastanti. Il primo, allarmante, è il 47,8% di astenuti: una diserzione di massa come mai aveva conosciuto la storia dell’isola, specchio non solo di un fenomeno nazionale ma anche di una specifica situazione sarda che non esiterei a definire di disperazione sociale. Tutti i dati economici già negativi del Paese si presentano se possibile in Sardegna in termini peggiori. Chiuse una dopo l’altra le industrie, desertificati interi territori, in caduta libera l’occupazione, in crisi la scuola. Una generazione, la più giovane, letteralmente senza prospettive. Una emigrazione intellettuale che è diventata emorragia senza ritorno verso i Paesi del Nord Europa. Stagnante l’economia agro-pastorale. Peggiorati i trasporti. Sempre più penalizzanti i vincoli dell’insularità. Basta una puntata nei paesi dell’interno: vecchi e bambini (pochi bambini: i sardi stanno estinguendosi), strade vuote, i pochi negozi chiusi. Una cappa oppressiva, dalla quale non si vede l’uscita.

O forse, no. Forse l’uscita sta in questa elezione di Francesco Pigliaru, classe 1954, economista con studi prestigiosi all’estero e cattedra a Cagliari, figlio di Antonio (professore anche lui ma di dottrina dello Stato, forse l’intellettuale più acuto che abbia avuto la Sardegna del dopoguerra). Uomo fuori dai partiti e specialmente dalle correnti (che sono poi la vera forma assunta dai partiti sardi, spesso puri comitati d’affari). Un’esperienza come assessore nella giunta Soru nel 2004 interrotta precocemente per contrasti col governatore, del quale pure era stato tra i primi entusiasti seguaci. Garbato, misurato, razionale, di poche parole. Una sua idea precisa di Sardegna, che parte dalla constatazione (ovvia, ma non ancora totalmente condivisa) della fine della grande industria; dalla convinzione che siamo entrati in una fase post-fordista, che conteranno sempre di più i livelli di istruzione, la capacità di ricerca avanzata, l’imprenditorialità basata su idee nuove. E stare dentro le grandi reti della comunicazione,  non più isolati ma in connessione col mondo. La Sardegna ha espresso Tiscali, del resto. Bisognerà cominciare da qui, liberando l’imprenditorialità sarda dai lacci e lacciuoli di una burocrazia regionale da riformare, dando impulso in ogni settore economico agli ambiti più innovativi, puntando sul rinnovamento generazionale e culturale.

Non sarà facile. La Giunta Cappellacci, nata sotto stretta tutela berlusconiana, ha collezionato solo fallimenti. “Sciatta”, l’ha definita Pigliaru, con un aggettivo curioso, quasi un giudizio estetico, più da professore, forse, che non da politico. Ora si tratta di ripartire quasi dovunque da zero.

Non sarà facile anche perché la Sardegna è stremata. Neppure la proposta indipendentista di Michela Murgia (le davano alla vigilia circa il 20%, ha raccolto il 10) è valsa a mobilitare un popolo di vinti, rassegnato e arrabbiato al tempo stesso. Grillo ha preferito girare alla larga, decidendo di non presentare liste. E il centrosinistra, che pure vince e bene, forse non ha ancora un’idea unitaria di programma, né condivide totalmente il progetto del suo neogovernatore. Ci vorrà molta pazienza, dunque, e insieme determinazione: pochi punti centrali, che diano subito qualche speranza ai disperati; una giunta di alto livello, possibilmente fuori dalle alchimie dei partiti; una spinta anche etica (che Francesco Pigliaru possiede, ma che deve adesso “contagiare” la coalizione) per riconciliare i transfughi con la politica. Tra le ragioni dell’astensionismo c’è anche la mancata esclusione dalle liste – Pd compreso – degli indagati (molti coinvolti nella maxi-indagine sulle spese dei consiglieri regionali). E la percezione diffusa che troppo spesso nella politica mancano i valori, che tutto si risolve nell’escalation personale di questo o quell’esponente rampante, nel vuoto delle proposte e nel totale disinteresse per il bene comune.

Non sarà facile, dunque. Ma Francesco Pigliaru può farcela.