La replica del ministro per l'Integrazione Cécile Kyenge a Roberto Calderoli, che l’aveva offesa con un insulto razzista paragonandola a "un orango", è stata non solo molto civile, ma ha segnalato il vero problema del razzismo della Lega e, più in generale, della comunicazione politica nel nostro Paese. Durante un pranzo, ospite della Carovana dello Ius Migrandi ha detto pubblicamente: "vorrei riflettere sul ruolo e le modalità di comunicazione di chi risiede nelle istituzioni, io sono per la non violenza". Ha poi proseguito sostenendo che la discussione politica deve essere basata sui contenuti e non su offese.

Non ci sarebbe più nulla da dire su questo brutto caso, in cui l’esponente leghista, vicepresidente del Senato, è stato condannato pressoché da tutti e ora risulta pure indagato per diffamazione aggravata dall’odio razziale, se non per fare qualche riflessione su un aspetto della vicenda, in parte  rilevato da Cécile Kyenge.

Innanzitutto il caso fa riflettere sul fatto che una persona che riveste una carica pubblica di grande rilievo possa usare insulti razzisti e restare al suo posto. Calderoli si è scusato (e ci mancherebbe!), ma non si è dimesso dalla vicepresidenza né si è avuta una reazione tale da parte della politica e dell’opinione pubblica da rendere le dimissioni ineludibili. Perché, se è vero che il vicepresidente del senato non può essere sfiduciato, è anche vero che da quando la Lega esiste si tollera che qualunque oltraggio e insulto razzista (per non parlare di minacce di reati gravissimi come la secessione armata) proveniente non da privati cittadini, ma da cariche istituzionali, passi per una bonaria battuta di spirito, una sorta di folklore nostrano. 

La seconda riflessione riguarda proprio la giustificazione che in genere segue I’offesa pubblica, intenzionalmente espressa. “Era uno scherzo…”, “una barzelletta…”. I giovani, i nostri figli e nipoti, vedono e sentono tutto questo in televisione, sui media in generale. Che lezione ne devono trarre? Che le offese pubbliche sono giustificate dalle risate che suscitano (non fa ridere portare un maiale a fare pipì davanti a una moschea? Non fa ridere immaginare una ministra nera dondolarsi da un ramo come una scimmia?). Le risate fanno bene allo spirito, ma quando giustificano il degrado del discorso pubblico seppelliscono non solo le buone maniere, ma l’immagine dell’Italia nel mondo. Non esiste un razzismo bonario e bonaccione, come vuol far credere la Lega, ma il razzismo e basta. Non è possibile lamentarsi del bullismo giovanile, della violenza individuale e di gruppo se i primi a istigare alla violenza sono i rappresentanti di istituzioni pubbliche (ne basta una!). La giustificazione che gli insegnanti devono a volte sentire di atti di prevaricazione dentro e fuori le scuole, spesso avallate dagli stessi genitori è che “si è trattato di una bravata…”, “non si voleva far male, ma solo divertirci un po’, ridere in compagnia…” Le parole sono pietre, possono far male quando si lanciano contro qualcuno e possono far male quando si nasconde la mano senza provare nemmeno un po’ di vergogna.  Forse è anche per questo buttare sul ridere le cose più gravi che Ennio Flaiano diceva che “la situazione politica in Italia è grave, ma non seria”.