L’invasione russa dell’Ucraina ha prodotto uno storico e inaspettato riallineamento tra le due anime politiche della Polonia. Da una parte quella liberale e progressista, guidata da Piattaforma civica (Po), dall’altra quella conservatrice e sovranista, rappresentata da Diritto e giustizia (Pis). Due visioni completamente diverse del Paese, seppur nate dalla stessa matrice politica, quella di Solidarność. Una spaccatura che ha origine nel periodo della transizione democratica, e la cui linea di faglia si è allargata sempre di più negli ultimi anni.

Piattaforma civica ha governato la Polonia dal 2007 al 2015, gli anni del rilancio economico e di una crescente considerazione nello scacchiere politico europeo. Un ciclo che si è esaurito per l’incapacità di parlare alla pancia del Paese. La cesura è stata netta, con la vittoria a valanga di Diritto e giustizia, che ha dato avvio alla rivoluzione conservatrice di Jarosław Kaczyński, in corso ancora oggi. Gli ultimi quindici anni possono essere definiti una vera e propria guerra civile politica fredda, che rende ancora più eccezionale l’equilibro creatosi in nome dell’emergenza nella vicina Ucraina. Un’emergenza che ha visto la Polonia impegnata in prima linea, e che ha richiesto un fronte compatto da parte dell’intera classe politica.

Il parlamento è dovuto intervenire velocemente con una legge in sostegno dei rifugiati. Sono più di 3 milioni le persone che dal 24 febbraio sono scappate dalla guerra attraverso il confine polacco. Almeno la metà sono rimaste nel Paese. Numerose le norme adottate per garantirne la legalizzazione del soggiorno e l’accesso al sistema sanitario, agevolarne l’ingresso nel mercato del lavoro e lo stanziamento di misure di welfare. Allo stesso modo il Parlamento ha votato in maniera compatta anche per quanto riguarda l’aumento delle spese militari fino al 3% del Pil, e finora sono state poche le voci contrarie al ruolo di testa di ponte assunto da Varsavia per il trasferimento delle armi occidentali a Kiev. Le ragioni di questa ritrovata unità nazionale sono da ricercarsi nella percezione della Russia come una minaccia diretta, ma soprattutto nella storia condivisa con l’Ucraina. I due Paesi vedono l’uno nell’altro quello che avrebbero potuto essere e non sono stati. I discrimini principali, anche se di certo non gli unici, l’ingresso della Polonia nella Nato nel 1997, e nell’Unione europea nel 2004. 

I due Paesi vedono l’uno nell’altro quello che avrebbero potuto essere e non sono stati. I discrimini principali, anche se di certo non gli unici, l’ingresso della Polonia nella Nato nel 1997, e nell’Unione europea nel 2004

Il fragile equilibrio interno che si è venuto a creare in Polonia è tuttavia pronto a franare al minimo scossone. La prima avvisaglia è quanto accaduto nelle scorse settimane in occasione del dodicesimo anniversario del disastro aereo di Smolensk, costato la vita all’allora presidente Lech Kaczyński, e ad altre 95 persone, perlopiù parlamentari e funzionari di governo. Le cause riconosciute dalle indagini svolte nel 2011 erano riconducibili a un errore del pilota in condizioni meteorologiche avverse. Una verità mai accettata da Jarosław Kaczyński, gemello di Lech, da sempre convinto che si fosse trattato di un attentato organizzato dal Cremlino. Proprio in questi giorni una commissione d’inchiesta istituita all’inizio del primo governo di Diritto e giustizia è arrivata a confermare questa ipotesi: a far cadere l’aereo sarebbero state due esplosioni in volo. È importante sottolineare che questa ricostruzione non viene contestata come «fake news» solamente dalla Russia, ma anche dalla stessa opposizione polacca, che la denuncia come non suffragata da alcuna prova. Ma a prescindere dalla sua scarsa attendibilità, la pubblicazione del rapporto ha riaperto una ferita molto dolorosa sul fronte interno. Kaczyński ha sempre accusato l’allora capo del governo Donald Tusk (Presidente del Consiglio europeo dal 2014 al 2019) di aver insabbiato le indagini; oggi, alla luce delle nuove «rivelazioni», è arrivato a dichiarare di volerlo vedere in prigione. Al netto dell’effetto riunificante della guerra è questo il clima politico del Paese.

La guerra in Ucraina ha permesso al governo polacco di uscire da un momento molto difficile. Solo una decina di giorni prima dell’inizio del conflitto, la Corte di giustizia europea respingeva il ricorso di Polonia e Ungheria sull’introduzione del meccanismo di condizionalità che lega l’erogazione dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto. Una mossa che aveva messo Varsavia in un angolo, già alle prese con il blocco dei 36 miliardi di euro previsti per il Recovery fund a causa del suo contenzioso con Bruxelles sulla riforma della giustizia.

Il ruolo di primaria importanza svolto da Varsavia nel conflitto ha però fatto in modo che i rapporti con la Commissione si siano temporaneamente ammorbiditi e c’è la netta sensazione che le due parti vogliano trovare una soluzione. Che il vento stesse cambiando si era già percepito a fine dicembre, quando gli Stati Uniti erano intervenuti in pressing sul presidente polacco Duda, affinché non approvasse un disegno di legge che avrebbe danneggiato Tvn, la principale rete televisiva privata del Paese di proprietà dell’americana Discovery. Quell’episodio era stato il pretesto per l’avvio di un fitto dialogo tra l’amministrazione americana e lo stesso Duda, diventato in poco tempo il canale privilegiato nei rapporti tra Varsavia e Washington. Una svolta sorprendente se si considera che Duda era stato uno di quei pochi presidenti che non si erano congratulati con Joe Biden al tempo della sua elezione. 

Un effetto collaterale dell’aggressione russa è stato quello di aver dato a Diritto e giustizia la possibilità di rivendicare la bontà della linea politica perseguita nei confronti di Mosca negli ultimi anni. Un fattore non da poco, se si considera quanto il partito di Kaczyński abbia investito in questi anni sulla storia come asset di governo per dare una precisa collocazione al Paese in politica estera e rafforzare la narrazione sovranista all’interno dei propri confini. È su questi presupposti che era nata l’iniziativa Raccontare la Polonia al mondo, una campagna di articoli a tema storico pagati dal governo e pubblicati sui numerosi giornali internazionali. L’iniziativa era volta a far conoscere la storia della Polonia dal proprio punto di vista. Da una parte ecco quindi la Polonia baluardo d’Europa contro il pericolo bolscevico durante la guerra che la vide contrapporsi a Mosca tra il 1919 e il 1921, dall’altra una Polonia tradita dalle potenze occidentali prima e dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale. La retorica ha insistito molto su questo punto, utile nel proprio scontro con la Commissione Ue. La Germania, l’altro «nemico» storico, che secondo la destra polacca sarebbe il grande manovratore dell’Europa, si è vista più volte richiedere il pagamento dei danni di guerra. Berlino viene inchiodata alle sue storiche responsabilità, in una sorta di immanente colpevolezza.

Un effetto collaterale dell’aggressione russa è stato quello di aver dato a Diritto e giustizia la possibilità di rivendicare la bontà della linea politica perseguita nei confronti di Mosca negli ultimi anni

Uno degli obiettivi del governo è stato quello dell’allineamento delle principali istituzioni museali e, laddove questo non fosse possibile, l’allontanamento di personaggi scomodi. È stato il caso di Dariusz Stola, ex direttore del Polin, il museo che racconta la storia degli ebrei in Polonia, che ha perso il posto per essersi opposto apertamente alla legge del 2018, che rende illegale il riferimento a qualsiasi complicità della Polonia durante l’Olocausto. Se il Polin è riuscito a mantenere comunque la sua indipendenza, è andata peggio al Museo della Seconda guerra mondiale, a Danzica. Qui la direzione è stata completamente cambiata con una favorevole a Diritto e giustizia, e la natura stessa del museo è mutata, assumendo una connotazione fortemente antitedesca. Nella stessa città il museo dedicato a Solidarność ha subito un drastico taglio dei fondi, poi coperto da una campagna di crowdfunding.

Nel 2019 ha destato molto clamore in Europa il fatto che la Commissione europea abbia approvato quella che è stata definita la «Risoluzione memoria», che equipara le responsabilità dell’Unione Sovietica a quelle della Germania nello scoppio della Seconda guerra mondiale. Un testo controverso che però ricalca l’idea di Varsavia circa il ruolo di Mosca nell’inizio del conflitto. Dalla prospettiva polacca la Russia ha invaso il Paese tanto quanto la Germania, quando le truppe dell’Armata rossa hanno fatto il loro ingresso il 17 settembre del 1939. Un’occupazione sanguinosa, che ha avuto tra gli episodi più tragici, quello dell’eccidio di Katyn, quando 22.000 prigionieri di guerra polacchi vennero uccisi dal Commissariato del popolo per gli affari interni (Nkvd). Una responsabilità a lungo taciuta e occultata, emersa solo negli anni della glasnost. Era proprio alla commemorazione del settantesimo anniversario di quel massacro che si stava recando l’aereo presidenziale caduto a Smolensk. Ancora una volta la storia che ritorna.

E il fatto che l’Armata rossa non sia mai stata vista come un esercito liberatore, ma come una forza di occupazione, si può vedere nella rimozione sistematica dei monumenti dedicati ai soldati sovietici. Nelle ultime settimane ne sono stati abbattuti tre, l’ultimo in ordine di tempo un memoriale nella cittadina di Siedlec, nell’ovest del Paese. La conseguenza tangibile di tutto questo è che Diritto e giustizia sta riguadagnando consensi. Dopo un lungo periodo di flessione i sondaggi lo danno in una forbice tra il 35 e il 39%. Piattaforma civica segue al 29%. A un anno dalle prossime elezioni si può dire che aver investito sulla storia, per il momento, sta pagando.