Fa sempre una certa impressione vedere in che modo giornali e opinione pubblica riescono a digerire la malapolitica italiana. Uno stomaco di ferro che, almeno in apparenza, metabolizza l’uno dopo l’altro scandali grandi e piccoli. A vent’anni dal terremoto di Mani Pulite, restiamo un Paese largamente corrotto e impunito. Ma i vent’anni trascorsi dall’ingiurioso lancio di monetine non sono passati invano. Sommati ai decenni precedenti, anni conclamati di Prima Repubblica, formano un ampio periodo storico nel corso del quale il popolo che la Carta fa padrone del proprio destino sembra essersi poco alla volta assuefatto. Come per tutto, o quasi, anche alla corruzione in tutte le sue forme, ma soprattutto alla corruzione come mutamento dei costumi e atteggiamento profondamente culturale, ci siamo abituati? Nonostante i periodici allarmi, gli strali, le grida, osserviamo oggi con malcelata rassegnazione come dalla ricca torta formata da tutte le nostre tasse manchino sempre più fette. Dai consigli comunali a quelli regionali, passando naturalmente per le casseforti dei partiti, decine di milioni di euro abbandonano la scena pubblica per imboccare quella più riservata dei conti bancari privati e privatissimi. Per tacere dell’evasione, altra causa conclamata del grande furto (e relativa beffa) di soldi pubblici.

Così, mentre un serio e autorevole governo di professori tenta di concretizzare riforme che troppo a lungo sono rimaste intrappolate nella rete dei rapporti politici (o, quando è il caso, si ripromette di modificare i connotati di quelle, in buona parte di facciata, che lo scorso esecutivo aveva varato), il lato ignobile della politica prosegue ad accaparrarsi una fetta importante della torta nazionale.

Tutti esprimono sconcerto: il governatore Formigoni, ad esempio, che con aplomb britannico assiste all’onda di accuse che sta travolgendo i vertici della sua amata Lombardia, in piena eccitazione pre-Expo. L’onorevole Rutelli, che s’indigna a più non posso a proposito del caso Lusi, dimenticando che anni di onorata carriera politica (con, annessi, visibilità e privilegi) comportano anche qualche rischio. Il sindaco Emiliano, che da Bari ammette di essere un po’ fesso, raccogliendo subito l’appoggio dell’amico-avversario Vendola. L’altro plurigovernatore, Vasco Errani (ricordiamo la polemica sul numero dei mandati che riguardò tanto il presidente della regione Lombardia quanto lui), che si trova intrappolato in una vicenda moralmente, e forse giudizialmente, pericolosa, pur se al momento lontana dalla gravità che pesa sulle accuse rivolte ai colleghi lombardi.

Episodi, nient’altro che episodi. Che tuttavia si allargano a macchia d’olio coinvolgendo intere aree del Paese, che si trovano ogni giorno meno immuni da veri e propri fenomeni di malavita organizzata, percependosi poco alla volta sempre più in pericolo in un contagio per il quale nessun professore sembra ancora avere scovato l’antidoto.

C’è da essere altro che pessimisti. Eppure in giro per l’Italia si registrano tante piccole realtà virtuose, e tantissime persone seriamente coinvolte nelle istituzioni, che respingendo d’istinto la facile tentazione di abbandonarsi all’antipolitica fanno politica. Quella di cui avremmo bisogno anche nelle istituzioni malate: a partire dalle giunte e dai consigli comunali e regionali, se le provincie le vogliamo dare per spacciate, intanto. Per non dire di Roma, tradizionalmente ladrona ma forse ormai soprattutto molto stanca e sempre più caotica. Questo allora sembra essere il compito più importante di quella che i moralisti chiamano la parte “sana”: recuperare la voglia di fare politica nonostante la politica. Dopo i tecnici, dopo le emergenze, dopo i conflitti di parte. Per ricominciare a digerire la politica di cui tutti abbiamo molto bisogno.