I sospettosi e i cinici sono prevalenti tra i commentatori di fatti politici – non potrebbe essere altrimenti – e quando ho sentito Mario Monti venerdì scorso affermare da Lilli Gruber che era “salito in campo” non per interesse personale o vocazione profonda, anzi in contrasto con questi sentimenti e nel solo interesse del Paese, sono sicuro che molti di loro avranno pensato alla frase ricamata sui camicioni da notte delle giovani spose tanto tempo fa: “non lo fo per piacer mio, ma per render gloria a Dio”. I sospettosi e i cinici si sbagliano: non c’è ipocrisia e Mario Monti ha confessato quanto effettivamente sente.

Questo è il Mario Monti che conosco, e bene, e da tanto tempo, quello che ho descritto in un articolo sull’ultimo numero di questa rivista: Mario Monti e un governo per l’Italia. Un uomo che ha alcune, ma non tutte le doti e le competenze che Max Weber ascrive al politico per vocazione/professione. Ha la dote che è più rara tra i politici italiani: ha un disegno per l’Italia, un’idea guida delle riforme che possono fare dell’Italia un paese più efficiente, più giusto e, di conseguenza, più rispettato. E ha le competenze tecniche e l’esperienza internazionale che mancano alla gran parte dei nostri politici su come mandare ad effetto quel disegno. Gli manca ciò che è invece più comune trovare tra costoro, una conoscenza dettagliata del nostro sistema politico e una intuizione, radicata nell’esperienza, di ciò che dalla politica è possibile ottenere per un programma di trasformazione del nostro Paese. E, soprattutto, sinora gli è mancata una identificazione profonda con il compito del politico, che misura successi e fallimenti personali sulla base della realizzazione di un progetto di riforma perseguito ossessivamente – Max Weber descrive questa magnifica ossessione in modo insuperato –, non con il riconoscimento della sua competenza e bravura professionali, come economista, commissario europeo, o anche ministro “tecnico”. Un compito, quest’ultimo, cui Mario Monti è stato “chiamato”, ma al quale non si è imposto mediante una battaglia politica in prima persona. 

È solo ora, con la sua “salita in campo”, che Monti si misura con la politica vera. L’arretrato di conoscenze e di esperienza che egli deve colmare è grande e lo riconosce lui stesso con onestà. Sinora non ha fatto gravi errori. L’uso del raggruppamento centrista come veicolo per l’entrata in politica era inevitabile, data la legge elettorale e l’inagibilità degli altri due poli, quello di destra per la presenza del populismo berlusconiano, quello di sinistra per il permanente arroccamento in una tradizione “nobilmente conservatrice”: la politica, come la storia, non si fa con i se, e ora non ha molto senso chiedersi quale veicolo Monti avrebbe scelto se Berlusconi fosse stato sconfitto nel polo di destra o se Renzi avesse vinto le primarie in quello della sinistra. L’errore che sta facendo – non irreparabile – riguarda il frequente richiamo all’irrilevanza delle categorie fondanti della dialettica e democratica, destra e sinistra. È vero che il suo richiamo è meno schematico e insistente di quello di Casini e che è ancora lontano dalle suggestioni tecnocratiche di un governo degli ottimati. Ed è altrettanto vero che, nel nostro Paese, una parte importante dei problemi che la politica deve affrontare non trova soluzioni se inquadrata in quelle due categorie, derivando da una storia di modernizzazione parziale e incompleta e non da uno scontro su diverse concezioni e strategie relative all’eguaglianza delle opportunità, che è il luogo storico e proprio dello scontro tra destra e sinistra: sulla corruzione, sull’efficienza della pubblica amministrazione, sul sottosviluppo meridionale e su tanti temi importantissimi c’è forse qualche ragione per la quale una destra e una sinistra moderne e civili dovrebbero distinguersi? (Un altro mio articolo in questa rivista illustra meglio un giudizio che non mi è possibile giustificare ora: Destra e sinistra: le radici della dicotomia e il caso italiano, n. 4/2012.) C’è dunque ancora la possibilità di distinguere e rettificare, di eliminare l’impressione di tecnocrazia che i primi interventi in campagna elettorale possono aver suscitato, di riconoscere la perdurante rilevanza delle due grandi categorie della dialettica politica.

Concludendo. Per ora, e quasi per necessità, Monti ha dovuto mettersi al centro, e rivolge le sue critiche – in larga misura giustificate – sia alla destra che alla sinistra che effettivamente ci sono, in un tentativo di modernizzazione della società e del sistema politico che definire difficile rasenta l’eufemismo. Ma il suo vero compito, quello per cui Monti potrebbe passare alla storia, è quello di civilizzare la destra, sradicare le tendenze populistiche che in essa sono esplose dopo il crollo della Democrazia cristiana, nel passaggio tra le Prima e la Seconda Repubblica. Una nuova Democrazia cristiana, un po’ più liberale e un po’meno confessionale della vecchia. Perché no? E se Mario Monti perseguirà con chiarezza questo obiettivo sono convinto che ogni traccia di rimpianto per la vita che conduceva prima della sua salita in campo sparirà dalle sue dichiarazioni pubbliche: per un uomo come lui non c’è nulla di più appassionante della politica, della politica vera.