Nel mondo sindacale e in particolar modo nel mondo sindacale metalmeccanico, Bologna è sempre stata considerata un laboratorio (se non addirittura la «capitale») della contrattazione articolata a livello aziendale.

Nelle fabbriche metalmeccaniche bolognesi (dal settore trainante del packaging – che non ha mai conosciuto crisi e che oggi in Emilia-Romagna vale il 62% del fatturato totale del settore – al mondo dell’automotive, dalle «multinazionali tascabili» bolognesi alle imprese ben inserite nelle reti globali di fornitura), si sono sempre fatti ottimi accordi aziendali. Accordi che in molti casi hanno anticipato tendenze nazionali, in altri hanno spianato la strada a quelle che poi sarebbero diventate conquiste per tutta la categoria; accordi che in alcune fasi storiche hanno rappresentato un argine importante di fronte al dilagare di precarietà e insicurezza, reggendo anche nei momenti più difficili.

La crisi ha cambiato la composizione sociale delle aziende metalmeccaniche dove si svolge la contrattazione. Nel 2009 il settore era composto da 56.728 addetti, di cui 31.716 operai e 25.012 impiegati. Oggi in 1.582 aziende metalmeccaniche che compongono il settore (comprese quelle artigiane) si ritrovano un totale di 49.868 dipendenti, con una proporzione tra operai e impiegati quasi di uno a uno: 24.017 impiegati, 25.851 operai. Dunque sempre più white collars e sempre meno blue collars.

Le trasformazioni portate dall’incrocio tra digitalizzazione e automazione (la cosiddetta «Industria 4.0») vanno inoltre a rendere sempre meno nitido il confine tra lavoro operaio e lavoro impiegatizio: si pensi a un operaio che deve controllare l’attività di impianti industriali automatici o a un impiegato occupato in un ufficio tecnico con tempi, scadenze e consegne ben definite.

Quando si parla di contrattazione è necessario anche provare a capire che modello di relazioni tra imprese e sindacato emerge dagli accordi. Si è parlato molto di una sorta di «via emiliana al modello tedesco», dopo gli ultimi accordi aziendali in Ducati Motor e in Automobili Lamborghini i quali applicano il modello della «Charta» dei rapporti di lavoro del Gruppo Volkswagen e sono quindi improntati ai principi di informazione, consultazione e contrattazione. Ma non serve entrare nelle aziende del Gruppo Audi-Volkswagen: a Bologna già da tempo c’è un terreno fertile che parte dal diritto dei lavoratori a votare sui propri accordi e arriva in molti casi alla presenza di commissioni tecniche paritetiche e bilaterali tra aziende e sindacato.

Un altro elemento diffuso della contrattazione nelle più importanti aziende metalmeccaniche è quello che riguarda l’organizzazione del lavoro e l’orario di lavoro: negli anni è stato costruito un sistema di turnistiche che permettono ai lavoratori e alle lavoratrici addetti ai turni di lavorare 35 ore a settimana, contro le 40 contrattuali.

Anche sul tema del rapporto tra scuola e mondo del lavoro (oggi di grande attualità in seguito all’obbligo dell’alternanza scuola-lavoro introdotto dalla Legge 107, la cosiddetta «Buona scuola») nelle fabbriche bolognesi la contrattazione aziendale ha qualcosa da insegnare. I metalmeccanici sono la categoria che, con la conquista del diritto alle 150 ore di permesso retribuito per il diritto allo studio, tra gli anni Settanta e Ottanta ha consentito a una generazione di operai di ottenere la licenza media. In molti accordi aziendali il diritto allo studio per i lavoratori si è poi ampliato in diritto allo studio per i loro figli (attraverso sistemi codificati di borse di studio). Nel 2014 in Ducati e in Lamborghini è stato realizzato – con un accordo sindacale sottoscritto da entrambe le aziende, dalle Rsu e da Fim Fiom Uilm di Bologna e dell’Emilia-Romagna – il progetto Desi, primo esempio in Italia di formazione duale, assunto come modello dal recente «Patto per il Lavoro» della Regione.

Mentre in Italia si moltiplicano i casi di denuncia di esperienze di alternanza scuola-lavoro che nascondono lavoro gratuito e sfruttamento (quando non portano a episodi molto più gravi) a Bologna il tema dell’alternanza scuola lavoro comincia a essere affrontato anche nella contrattazione.

C’è poi stata un’altra grande tornata contrattuale che ha attraversato e condizionato in modo diffuso gli accordi aziendali nelle imprese metalmeccaniche bolognesi: la lotta contro il lavoro precario, anche come azione di contrasto nei primi anni Duemila alle nuove leggi sul lavoro (La Legge 30/2003, cd. Legge Biagi, e il successivo D.Lgs 276/2003). Attraverso la contrattazione articolata si sono firmati decine di accordi che hanno introdotto limiti percentuali alla possibilità di utilizzare lavoratori interinali (oggi lavoratori «somministrati»), previsto percorsi concordati di stabilizzazione a tempo indeterminato, escluso l’utilizzo delle forme peggiori di lavoro precario, garantito il non utilizzo dei livelli più bassi del contratto nazionale. Occorre però interrogarsi sui limiti di questa pratica.

Il limite più grande è stata la difficoltà di estendere e generalizzare in modo diffuso quelle che si potrebbero chiamare «buone pratiche» anche nelle piccole e medie imprese del settore e fuori dal settore metalmeccanico. Avrebbe potuto la migliore contrattazione del settore rappresentare un argine alla diffusione di lavoro povero e precarietà in quelle «periferie del mondo del lavoro» che stavano allargandosi anche a Bologna? Quelle periferie che sono sì fuori dalle aziende metalmeccaniche ma che, in alcuni casi, con le esternalizzazioni, entrano anche dentro le mura delle nostre fabbriche?

Il riferimento è ad appalti e subappalti, alle cooperative e alle false cooperative, a quei lavoratori – spesso migranti e spesso impiegati nel settore della logistica – che hanno condizioni contrattuali ed economiche ben diverse da quelle dell’azienda committente. Quella dell’intervento contrattuale lungo la filiera degli appalti è la nuova frontiera della contrattazione con la quale ci si sta misurando negli ultimi anni. La priorità oggi è riunificare e ricostruire un mondo del lavoro sempre più frammentato e dove i lavoratori sono, molto spesso, messi gli uni contro gli altri. L’intervento sugli appalti è ormai parte di ogni piattaforma sindacale dei metalmeccanici, viene discusso ai tavoli negoziali, e trova soluzioni diverse, ma importanti, in tutti gli accordi più significativi.

Restano tanti problemi per un sindacato che, forte di un radicamento diffuso a Bologna pari a nessun altro territorio, oggi deve anche fare i conti con quel «populismo 2.0» (come lo ha definito Marco Revelli) che dalla società entra anche nei luoghi di lavoro, diventando «populismo sindacale».

Di sindacato c’è però ancora bisogno, ma di un sindacato che sappia stare dentro i grandi cambiamenti del nostro tempo avendo sempre la forza del proprio punto di vista, un punto di vista autonomo e indipendente, quello del lavoro.

 

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