Pochi giorni fa, la Corte Costituzionale ha depositato la sentenza n. 195 per sanare una delle tante mostruosità della legge vigente in materia di cittadinanza. In mancanza di una vera e propria riforma della legge 91/1992, se non altro la Consulta ha bocciato l’articolo 5 della legge in quanto «irragionevole e incostituzionale». Tale norma prevedeva che il coniuge straniero, in caso di morte del coniuge italiano prima dei sopravvenuti due o tre anni (a seconda se residente o meno sul territorio italiano) di matrimonio, non avesse più diritto all’acquisizione della cittadinanza italiana. La morte del coniuge italiano, sciogliendo il vincolo del matrimonio, prima di aver ottenuto i requisiti di legge per la cittadinanza, inibiva, infatti, il perfezionamento della prevista procedura.

La riunione della Consulta risale al 23 giugno, vigilia del giorno in cui il Parlamento avrebbe dovuto aprire le procedure per approvare o respingere la riforma della legge, con l’introduzione del cosiddetto ius scholae, sulla base del testo portato in aula dal relatore Giuseppe Brescia, deputato del Movimento 5 Stelle. Si trattava di un testo lungamente discusso in commissione, frutto di mediazioni che avevano ulteriormente moderato una proposta già di per sé molto moderata. Il seguito è noto. Dopo i 1.500 emendamenti presentati dalla Lega, tra cui i più ridicoli – se non fossero anche i più inquietanti – erano quelli che richiedevano, per i candidati alla cittadinanza, un test scritto sul presepe e una prova orale sulle sagre locali italiane, la Camera, complici i parlamentari del Pd, ha rimandato a settembre la votazione della riforma della legge in materia di cittadinanza. Sennonché sono intervenute le dimissioni del presidente del Consiglio Draghi e la fine anticipata della legislatura: il rinvio è diventato sine die.

Impossibile sapere cosa sarebbe successo se si fosse deciso di rimandare di una settimana le “ferie” dei parlamentari per votare la nuova legge prima dell’estate; né, qualora il governo non fosse caduto, se si fosse votato dopo la pausa estiva. Eppure il 24 giugno, proprio in vista della votazione sullo ius scholae, Action Aid aveva presentato al presidente della Repubblica i risultati di un sondaggio da cui emerge che circa 6 italiani su 10 sono favorevoli alla riforma. I dati mostrato anche la scarsissima conoscenza che gli italiani hanno dei criteri di acquisizione della cittadinanza, così come del numero degli studenti senza cittadinanza presenti nelle scuole italiane (877 mila in totale, circa un decimo della popolazione scolastica). Allo stesso tempo, però, gli italiani che hanno partecipato al sondaggio, una volta conosciuti i dettagli della riforma della legge 91/1992, si sono detti favorevoli a promuovere lo ius scholae, indipendentemente dalle appartenenze politiche: anche la maggioranza degli elettori di destra (chi vota Lega, Fratelli di Italia e Forza Italia) si è espressa per l’attribuzione della cittadinanza ai figli minori di genitori stranieri, al contrario dei partiti di riferimento che hanno continuato a opporsi alla riforma. Risultati analoghi emergono da un altro recentissimo studio: le interviste condotte da Maarten Vink e Victoria Donnaloja confermano che gli elettori sembrano propensi a una prospettiva di riforma più di quanto i partiti politici facciano credere. Insomma, una riforma “moderata”, come quella rappresentata dal cosiddetto ius scholae, sarebbe meno controversa di quanto i partiti stessi ritengano.

Gli elettori sembrano propensi a una prospettiva di riforma più di quanto i partiti politici facciano credere. Lo ius scholae è meno controverso di quanto immaginano i politici

Registrata l’ormai costante distanza siderale tra partiti e loro elettorati, va notato un altro segnale inquietante: lo ius scholae è di nuovo uscito dal dibattito pubblico, eclissato proprio nel momento in cui si è aperta la campagna elettorale. Ora, in qualsiasi Paese, materie così importanti come il conferimento della cittadinanza ai minori stranieri sono sempre entrate nelle campagne elettorali e nelle trattative sui collegi, soprattutto quando si tratta di proporre la modifica del criterio dello ius soli o del più annacquato ius culturae, di cui il criterio dello ius scholae fa parte. Ciò avviene per un motivo molto concreto: al di là della tecnica giuridica, le regole per ottenere la cittadinanza rientrano a pieno titolo nelle politiche sociali.

Tra i molti ritardi che oggi l’Italia sconta, c’è anche questo: l’attuale normativa sull’acquisizione della cittadinanza, vecchia di trent’anni, è del tutto inadeguata alle trasformazioni avvenute nella società e nella composizione demografica del Paese. Essa si distingue ormai per arretratezza (potremmo dire anche miopia) all’interno dell’Unione europea: non solo perché nega il diritto collegato al luogo di nascita, ma perché prevede misure particolarmente restrittive in materia di residenza e tempistiche straordinariamente lunghe affinché i minori possano ottenere la cittadinanza al compimento del diciottesimo anno di età. Ai figli nati in Italia da genitori migranti sono richiesti diciotto anni di residenza ininterrotta prima di poter fare domanda per diventare cittadini: senza giri di parole, si tratta di una ferita alla democrazia e al vivere civile.

Allineare l’Italia alla maggior parte dei Paesi dell’Ue – dove i bambini nati nel Paese hanno diritto alla cittadinanza dalla nascita ( ius soli), indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori (come in Germania, o in Portogallo), oppure acquisiscono il relativo diritto dopo alcuni anni di permanenza nel Paese durante l’infanzia (come nei Paesi Bassi, o in Svezia) – non è atto di particolare coraggio.

Le inchieste che abbiamo citato dimostrano che l’opinione pubblica è su posizioni più avanzate rispetto a chi la rappresenta, almeno non appena il dibattito prevale su una cieca contrapposizione ideologica a colpi di slogan. Inoltre, per chiarire ulteriormente i termini della discussione, lo ius scholae sarebbe stata una riforma moderata rispetto ai criteri adottati in quasi tutti i paesi dell’Ue, dove vige uno ius soli cosiddetto “condizionato” per cui se la sola circostanza di essere nati sul territorio di uno Stato non è sufficiente per diventarne cittadini, basta che ricorra almeno un’altra condizione – solitamente il regolare permesso di soggiorno dei genitori, oppure la loro residenza nel territorio statale da un numero minimo di anni (di solito 5 o 10) – per averne diritto.

La riforma avrebbe permesso al minore straniero nato in Italia di acquisire la cittadinanza quando, risiedendo regolarmente nel territorio nazionale, avesse frequentato per almeno 5 anni uno o più cicli scolastici, possibilità aperta anche al minore straniero che fosse arrivato nel nostro Paese entro il compimento del dodicesimo anno di età. Siamo di fronte a una misura molto delimitata, lungi dall’essere una riforma organica della cittadinanza: non si tratta di ius soli condizionato sul modello europeo, non è retroattiva, ha limiti di età precisi, non vi ricade chi non è (più) a scuola o scolarizzato. Per gli studenti più grandi – che spesso abbandonano le scuole ben prima di completare tutto il percorso di studi – o per chi arrivi in Italia da adulto e viva stabilmente in Italia sarebbe, infatti, necessario ripensare anche lo ius domicilii, che attualmente prevede dieci anni consecutivi di residenza, oltre a un reddito regolare, per poter presentare domanda di cittadinanza.

Nonostante questi limiti, la proposta sarebbe, però, stata un segnale importante perché, mettendo in discussione una delle basi della legge, avrebbe potuto aprire la possibilità, dopo trent’anni, di riscrivere l’istituto nel suo complesso, mettendo fine alla posizione di privilegio riconosciuta, a tutt’oggi, al criterio di ius sanguinis nel nostro Paese. La scelta fatta nel 1992 era già di per sé anacronistica: del tutto miope nei confronti di trasformazioni già avviate e di tendenze prevedibili all’intero della società che vive in Italia, allargava invece a dismisura l’idea di “italiani all’estero” (per cui il “sangue italiano” regge per un numero strabiliante di generazioni non nate in patria: se si vive all’estero per ottenere la cittadinanza basta dimostrare di avere un antenato italiano entro il 1861). Inquietante per le sue implicazioni politiche, storiche e culturali già nel 1992, oggi, a fronte di una presenza di cinque milioni di cittadini di origine straniera sul territorio italiano e senza il bilanciamento di un diritto alla cittadinanza basato sullo ius soli, questa norma si configura ormai come un dispositivo di razzismo istituzionale che, in buona sostanza, anche la sinistra tollera serenamente.

La legge vigente si configura come un dispositivo di razzismo istituzionale che, in buona sostanza, viene tollerata nei fatti anche dalla sinistra

Lo ius scholae avrebbe permesso appunto di cominciare a flettere questo dispositivo, aprendo alla titolarità di pieni diritti da parte di chi è italiano di fatto, ma di diritto è lasciato nella condizione di straniero che è “divenuta come un dato biologico del quale è quasi impossibile sbarazzarsi” ( Clelia Bartoli ). Se la legge del 1992 ha posto le basi di disuguaglianze, discriminazioni, gerarchie, formali e informali, e ha bloccato dinamiche virtuose presenti nella società civile, alimentando forme di razzismo e discriminazione nelle pratiche quotidiane, lo ius scholae avrebbe tolto da una condizione di inferiorità, rispetto ai coetanei in possesso della cittadinanza, oltre 877mila minori nati e/o cresciuti in Italia, provocando, peraltro, un cortocircuito virtuoso tra istruzione e integrazione.

Mettendo al centro la scuola come fattore importante di integrazione e come luogo di non discriminazione, la riforma avrebbe ridato, almeno in parte, il giusto peso anche al sistema scolastico da troppo tempo non valorizzato in Italia, restituendo fiducia alla scuola come principale strumento di vita civile e come palestra etica. Ancora, lo ius scholae sarebbe stato in linea con le ricerche che dimostrano come l’acquisizione della cittadinanza nei primi anni scolastici, anziché in età adulta, porti benefici ai bambini e ai loro genitori, ma soprattutto porti alla riduzione delle percentuali di abbandono scolastico (una delle più gravi piaghe nazionali) tra i minori di provenienza migratoria. Il rischio nelle scuole pubbliche è che, in assenza di parità nei diritti, non si realizzi il senso di uguaglianza basata sul rispetto dell’altro come uguale. La disuguaglianza nei diritti genera, infatti, l’immagine dell’altro come diseguale, ossia come antropologicamente inferiore proprio perché giuridicamente inferiore. Il razzismo istituzionale produce, infatti, un razzismo sociale, per l’interazione che sempre sussiste tra diritto e senso comune. Solo una normativa inclusiva in materia potrebbe contribuire a tutelare i cittadini stranieri contro le discriminazioni e la percezione dell’inferiorità.

Il rischio nelle scuole pubbliche è che, in assenza di parità nei diritti, non si realizzi il senso di uguaglianza basata sul rispetto dell’altro come uguale

La cittadinanza resta a discrezione degli Stati. Come ha ricordato di recente il Consiglio di Stato “lo straniero non ha un diritto soggettivo all'acquisto della cittadinanza” (Consiglio di Stato – sez. III – sentenza n. 5679 del 2 agosto 2021), è una condizione stabilita per legge, espressione delle volontà dei Parlamenti che hanno il potere di stabilire i requisiti necessari per ottenerla. Se la legge non considera cittadino una persona in quanto priva dei requisiti giuridicamente determinati (e determinanti), questa non ha alcun diritto da rivendicare in proposito. La legge deve cambiare, la politica deve muoversi.

E quindi, in conclusione, è costernante registrare l’eclissi di questo tema proprio nel momento in cui si apre una campagna elettorale. Mentre nelle ultime settimane della legislatura in corso ottenere il riconoscimento di alcuni diritti sembrava a portata di mano, a oggi sembra che la strada sia tutta da rifare, il percorso tutto da ricostruire. Lo stesso Enrico Letta che, appena rientrato nella vita politica italiana nel 2021 proclamava la necessità di una nuova legge sulla cittadinanza, non risulta si sia ancora espresso al riguardo nell’ambito della campagna elettorale. I politici italiani sembrano partire sempre dal presupposto che gli elettori siano riluttanti ad accettare qualsiasi prospettiva di riforma della legge sulla cittadinanza: e se invece scoprissero che proporla in campagna elettorale potrebbe far raccogliere qualche voto in più? Quanto tempo dovrà passare prima che ciò avvenga – auspicando che la proposta sia anche più al passo con i tempi e con le esigenze reali dei migranti presenti in Italia rispetto alla proposta dello ius scholae?

Nel frattempo la delusione dei tantissimi minori stranieri nati e cresciuti in Italia e delle loro famiglie è molto forte. Infatti una nuova disciplina sembrava a portata di mano per quei minori, figli di migranti, nati o cresciuti in Italia, che, in prima persona, si sono mobilitati per “conquistare” i propri diritti attraverso movimenti come Dalla parte giusta della storia e che fanno, quotidianamente, esperienza dell’essere esclusi dalla cittadinanza e dai diritti a essa collegati.

Di questo naufragio della politica italiana sono vittime quei bambini e quelle bambine, quei ragazzi e quelle ragazze che sono il nostro presente e, a maggior ragione, il nostro futuro.