In questi tempi di virus, quando è inutile fare zapping perché dovunque si parla della nuova peste, abbiamo scelto di ridurre al massimo la nostra esposizione a immagini e discorsi, limitandoci a vedere un solo telegiornale al giorno. Siamo stati comunque raggiunti dai nostri contatti in Cina e dalle narrazioni su noi, il virus e il mondo, che dominano anche le poche chat a cui partecipiamo.

Abituati dalla sociologia visuale a leggere le immagini come narrazioni, vorremmo soffermarci su alcune di quelle circolate proprio negli ultimi giorni a proposito della Cina e del nostro Paese.

L’immagine che ci ha colpito di più è un breve video che a prima vista sembra innocente. Presenta una donna giovane ma non particolarmente bella dai tratti somatici caucasici nel suo ufficio open space che sternutisce senza prendere alcuna precauzione. Non ha la mascherina. Non distante da lei una donna giovane e bella dai tratti asiatici sospira, poi si rimbocca metaforicamente le maniche e arrangia da sé una mascherina con un semplice foglio di Scottex e due elastici. Il titolo, in cinese, recita: Costruire una mascherina da soli. Non c’è bisogno di tradurlo in altre lingue. Un video lineare, diretto, che è diventato virale.

Ma perché ci scambiamo freneticamente un video che dà per scontato che la persona dai tratti caucasici sia quella potenzialmente portatrice del coronavirus mentre quella dai tratti asiatici (cinese, visto il titolo) è costretta a correre ai ripari proteggendosi? Non era nato in Cina quel virus?

Un altro messaggio che circola su WhatsApp mostra una serie di frasi su come le autorità cinesi si comportino virtuosamente mentre gli italiani, come sempre, non sanno essere disciplinati nemmeno davanti al rischio di venire infettati.

Cina:

  • Scoppia il virus

  • Quarantena da subito

  • Sospensione attività lavorative

  • Esercito per sanificare le strade

  • Costruzione ospedali in 10 giorni

Italia

  • Arriva il virus

  • No, ma non è il virus. È che non ti sei messo la maglia della salute

  • Allora è il virus, zona rossa

  • Scappiamo dalla zona rossa

  • Svaligiamo il supermercato

  • No, le penne lisce no!

Non si tratta solo di divertente autoironia: anche in questo caso il messaggio è fortemente fuorviante.

Ho-fung Hung, della Johns Hopkins University, mette in guardia dall’accusare un particolare gruppo, un particolare popolo, di essere l’untore, così come si è spesso fatto nei secoli; allo stesso tempo dice a chiare lettere che non possiamo nascondere che il virus è nato in Cina e da lì si è progressivamente esteso al globo. In altre parole, accusare un gruppo (nazionale) di diffondere il virus è discriminante perché le persone sono vittime involontarie del virus mentre chi sta al potere ha precise responsabilità verso la diffusione del virus.

I due messaggi presentati sopra risultano quindi pericolosi perché rovesciano i fatti.

La rivista cinese "Caixin" – che non è antigovernativa, ma un’autorevole rivista ufficiale di economia, finanza e società cinese – ha prodotto un rapporto in cui conferma che casi di trasmissione del virus da umano a umano sono apparsi a Wuhan a fine dicembre. Il "South China Morning Post", di proprietà di Jack Ma – non un pericoloso eversivo, ma il proprietario di Alibaba, spesso allineato alla politiche governative –, ha rivelato che il governo cinese sapeva dei primi casi di Coronavirus già a metà novembre scorso. Dunque, dall’alto se ne è tenuto nascosta l’esistenza per un periodo di tempo cruciale. Sic stantibus rebus, che senso ha accogliere acriticamente un video che presenta persone dai tratti non asiatici come potenziali "untori"? E che senso ha sposare la retorica cinese secondo cui il governo cinese avrebbe messo il suo popolo in quarantena da subito?

Per tornare alla sociologia visuale, ci ha molto colpito un'altra immagine virale: la vignetta in cui una Cina (imperiale) si china pietosa ad aiutare una malconcia Italia a risollevarsi da terra, mentre una morte con tanto di falce che veste la bandiera europea rimane impassibile, a braccia conserte. Se è vero che le istituzioni europee sono state ambigue e attendiste e i Paesi europei sono ora divisi su come aiutarsi a vicenda, nonostante il virus, e le morti e i ricoveri continuano a diffondersi in Europa e oltre in maniera preoccupante, è di certo fuorviante rappresentare la Cina come il Paese che ci permette di rialzarci da terra.

In questi giorni, mentre il presidente degli Stati Uniti tenta di razzializzare la pandemia, le autorità cinesi riescono a uscire dal ruolo di untori e mandano i primi aiuti ai Paesi colpiti dal Coronavirus, tra cui l’Italia, la Spagna e, sembrerebbe, addirittura gli Stati Uniti.

La Cina tuttavia non è l’unico Paese che sta aiutando l’Italia in questo frangente, né sappiamo dire se in futuro sarà la Cina ad aiutare l’Italia a rialzarsi. Da una parte, politiche concrete per arginare il crollo delle economie colpite dal virus dovranno venire in primis dall’Europa, e in fretta. Dall’altra, negli scenari post-virus, quando, come sostiene Sandro Mezzadra, il capitalismo globale non sarà più lo stesso, i Paesi forti tenderanno ad aiutare quei Paesi che possono offrire qualcosa di sostanziale in cambio.

Nel nostro piccolo, riteniamo importante saper decifrare le valenze simboliche delle narrazioni proposte in questo frangente dai Paesi più forti e reagire, foss’anche solo astenendoci dall’avvallare e diffondere con un semplice click le narrazioni più distorte e interessate.

Infine, notiamo che noi stessi stiamo creando nuovi simboli intorno al Coronavirus.
Fino a solo qualche settimana fa, la bandiera nazionale, l’inno di Mameli e la mano al petto le vedevamo solo alle partite di calcio. Oggi, in tempi di crisi virale, le carte si rimescolano. L’inno che invita i fratelli d’Italia a unirsi coraggiosi – ma dove sono le sorelle? – nelle settimane scorse è stato proposto e riproposto in un gioco di rimandi tra bottom up e top down: lo suonavano dai tetti per essere visti e uditi da molti, poi rimbalzava nei flash mob su scala nazionale, l’infermiera lo suonava al violino ai suoi malati, i dipendenti Unicoop lo cantavano per resistere. Dall’alto, per giorni è stato proposto a conclusione dei tg di Stato, diventando così appuntamento giornaliero.

In un vecchio ma magistrale saggio, Sherry B. Ortner spiega cosa sono i "simboli elaboranti": simboli che creano parallelismo o isomorfismo tra ambiti prima irrelati. Fondendo insieme ambiti o problemi diversi i simboli elaboranti creano nuove letture per le problematiche esistenti e diffondono un modo nuovo di presentare – e vedere – il mondo che ci circonda. Un esempio calzante in questo senso è la creazione di isomorfismo tra sicurezza e migrazioni, temi che una volta fusi insieme ci portano inevitabilmente a leggere le migrazioni in termini di sicurezza e la sicurezza come difesa dalle migrazioni.

Avvicinando i bollettini di guerra sul Coronavirus con l’inno e la bandiera nazionale, in questi giorni l’Italia ha creato un nuovo simbolo elaborante. Un isomorfismo tra lo sforzo nella lotta al virus e un (inedito e precario) orgoglio di nazione come mezzo idoneo e cruciale per superare la crisi. Quello che è interessante notare è che questa fusione ha come effetto una (temporanea?) ricollocazione dei simboli nazionali che si rinforzano per diventare – forse per la prima volta – condivisi, sfuggendo così di mano a singole formazioni politiche che avevano provato a farli propri.

Che implicazioni avrà tutto questo? Una volta che a livello globale sarà stato sconfitto questo virus, sovranismi e populismi saranno indeboliti (anche) dal punto di vista simbolico, visto che i "loro" simboli ora ci rappresentano tutti, con gioia per alcuni, obtorto collo per altri? Oppure i simboli di orgoglio nazionale fusi con lo sforzo contro il virus contribuiranno a trascinarci verso un rafforzamento dei poteri che dominano le nostre vite e cioè in una direzione verso cui la maggior parte di noi non intendeva e sapeva di andare?