Quasi all’inizio della crisi pandemica, l’ospedale di Chiari, in provincia di Brescia, lancia un allarme per l’esaurimento delle scorte di valvole per i respiratori della terapia intensiva. Tramite una rete di contatti che passa attraverso Massimo Temporelli, il fondatore del primo Fabrication Laboratory (Fab Lab) di Milano, la richiesta arriva all’ingegnere Cristian Fracassi, fondatore e Ceo di una piccola impresa locale, la Isinnova, dotata di una stampante 3D. Dopo aver preso contatto con il personale sanitario, Fracassi produce prima un prototipo e poi 100 valvole che vengono donate all’ospedale. La crisi viene risolta nel giro di 24 ore. Qualche giorno dopo un altro ospedale si rivolge alla Isinnova per far fronte a una carenza di maschere per l’ossigeno. Da questa seconda richiesta nasce il dispositivo “Easy Covid 19”, ottenuto modificando una normale maschera da sub, ora usato in diverse terapie intensive.

Si tratta di un caso esemplare di innovazione-aperta e collaborativa che vede coinvolte imprese multinazionali e colossi della distribuzione commerciale, insieme a piccole start-up e “semplici” maker. Decathlon ha donato 10 mila maschere. Una multinazionale francese e la Isinnova hanno reso disponibili, in modalità aperta, i file progettuali della maschera e di una valvola per la connessione al ventilatore di ossigeno. Molti Fab Lab, aziende private e singoli cittadini, in possesso di stampanti 3d, hanno così potuto mettersi all’opera per modificare gratuitamente le maschere in molte province italiane.

Casi come questi non sono isolati. Il Fab Lab del Muse di Trento sta realizzando delle visiere per il personale che effettua i test diagnostici del Coronavirus a partire da una plastica biodegradabile ottenuta dalla fermentazione dell’amido di mais. Quello di Frosinone produce maschere protettive in collaborazione con l’Associazione Medici di famiglia per l’ambiente. Un’azienda romagnola, la Wasp, ha condiviso online i disegni per produrre caschi ventilati di protezione e mascherine.

Prendendo spunto da questi episodi, l’associazione Make in Italy – nata nel 2014 per promuovere la cultura della personal fabrication – ha lanciano l’iniziativa “Makers for Covid-19 emergency”, con l’obiettivo di creare un ponte tra le domande del personale sanitario e i Fab Lab disponibili a dare una mano. Finora sono state raccolte 530 adesioni e si contano 2.700 parti prodotte. Sul sito dell’associazione si trovano, in versione open-access, istruzioni dettagliate per fare un po’ di tutto: mascherine e vari apparati di protezione, ventilatori di emergenza, dispositivi per l’intubazione, copri-maniglie per aprire le porte in sicurezza e molto altro ancora.

Lo stesso è avvenuto in altri Paesi del mondo. In Spagna una rete di volontari composta da medici, scienziati e ingegneri (si fanno chiamare coronavirus makers) usa le stesse procedure e macchinari per realizzare materiale sanitario. Attualmente sono in grado di produrre dai 50 ai 100 respiratori al giorno, che vengono distribuiti agli ospedali che ne fanno richiesta. In Portogallo, il Fab Lab Benfica di Lisbona fornisce dispositivi al personale sanitario e di polizia. Un medico canadese, Tarek Loubani, ha attivato la sua organizzazione di volontariato internazionale per rifornire di maschere protettive i suoi colleghi nord-americani. Loubani è uno dei promotori del “Glia Project” che produce, in modalità aperta, con stampanti 3D, dispositivi sanitari per le zone di guerra, le regioni povere e altri territori che fronteggiano stati di emergenza. Per fare solo un esempio, un normale stetoscopio medico, che viene commercializzato sul mercato a prezzi che oscillano tra i 30 e i 200 dollari, tramite i file open-source messi a disposizione dal progetto Glia può essere realizzato a un costo unitario di appena 3 dollari.

La condivisione aperta delle informazioni per fabbricare materiale sanitario si sta diffondendo a macchia d’olio. Su Internet si trovano molti repositories dove, oltre ai file progettuali, sono reperibili anche tutte le avvertenze per la messa in sicurezza del materiale prodotto e i test necessari per la loro validazione e certificazione. Per fronteggiare l’emergenza si moltiplicano anche le comunità online di open-innovation: l’“Helpful Engineering Group” condivide idee tramite il software collaborativo slack; i gruppi “Open Source Covid-19 Medical Supplies” e “The FabLab Research International Group” si incontrano invece su Facebook. Alcune iniziative di condivisione sono state poi lanciate da prestigiosi laboratori e istituzioni di ricerca, come il “Mit Emergency Ventilator” o la “Just One Giant Lab OpenCovid19 Initiative”. Infine, molti cittadini e associazioni hanno dato vita a gruppi informali che operano su base nazionale. Se ne trovano in Argentina, Belgio, Irlanda, Polonia, negli Stati Uniti e in molti altri Paesi. E la lista si allunga di giorno in giorno.

Sono tutti esempi di quella che, insieme a Cecilia Manzo, in un libro di recente pubblicato dal Mulino, abbiamo definito come la nuova “economia della collaborazione”. Con questo termine facciamo riferimento a una modalità di organizzazione della produzione, della distribuzione e del consumo di beni e servizi basata su relazioni di tipo cooperativo. Si tratta di nuovi modi di coordinare le attività economiche, in cui l’apertura verso l’esterno e le relazioni peer to peer (tra pari) giocano un ruolo più importante che in passato.

Un tratto essenziale dell’economia della collaborazione è che si avvale delle nuove tecnologie digitali non solo per far circolare informazioni e creare nuove conoscenze, ma anche per finanziare, produrre e scambiare beni e servizi. Queste attvità collaborative a volte sono regolate dal mercato e motivate da una logica acquisitiva, altre volte da norme di reciprocità che non contemplano ricompense monetarie. Oppure, ancora, possono assumere una forma “ibrida”, in cui mercato e reciprocità si mescolano, e motivazioni di guadagno e pro-sociali si confondono. Queste forme intermedie di regolazione sono in espansione e rappresentano un aspetto di grande interesse delle trasformazioni connesse alla digitalizzazione dell’economia.

Su questo sfondo vanno collocati gli episodi raccontati all’inizio, che spesso vedono come protagonisti maker e Fab Lab. Ne abbiamo già parlato di loro proprio sul “Mulino” (I nuovi artigiani digitali, n. 2/2016). Potremmo definire quello dei maker un movimento su scala globale, che tiene insieme la riscoperta del lavoro artigianale e la passione per le nuove tecnologie digitali; la creatività individuale e la disponibilità a collaborare insieme ad altri. I Fab Lab sono una delle espressioni più originali e promettenti di questo movimento. Si tratta di officine artigianali dove i bit dialogano con gli atomi, dove cioè le tecnologie informatiche si incontrano con quelle produttive. Mirano a promuovere la cultura dell’open-innovation e del “fai-da-te digitale”, garantendo l’accesso pubblico al laboratorio – gratuito o basato sullo scambio di servizi – per almeno una parte della settimana. Per questo si definiscono come una “community resource”, poiché forniscono uno spazio dove si insegnano ad usare gli strumenti e i macchinari per la fabbricazione digitale.

Benché si siano diffusi rapidamente su scala globale – raggiungendo nel marzo 2020 la notevole cifra di 1.891 – quasi la metà dei Fab Lab sono collocati nei Paesi dell’Unione europea: se ne contano 747. Un numero molto superiore a quello degli Stati Uniti (241), dove questo fenomeno ha avuto origine. Altrettanto singolarmente, poi, in Europa non sono i Paesi più avanzati e innovativi ad averne il numero maggiore, bensì due Paesi mediterranei: la Francia ne conta 223, collocandosi al secondo posto dietro gli Usa nella graduatoria mondiale e l’Italia ne ha 171, posizionandosi al terzo posto.

La ragione di una proliferazione così squilibrata sulle due sponde dell’Atlantico va ricercata nei diversi “meccanismi generativi”. Negli Stati Uniti i Fab Lab sono nati all’interno di scuole secondarie e università, spesso utilizzando finanziamenti federali. La loro genesi ha seguito un percorso più “istituzionalizzato” che ha ridotto lo spazio e la necessità di una mobilitazione dal basso ad opera di gruppi di cittadini. Questo ha inevitabilmente contenuto il loro numero, dando però vita a laboratori più solidi e meglio finanziati. In Europa (e specialmente in Francia e in Italia), invece, i laboratori sono stati creati da gruppi di cittadini e da altri attori della società civile, che vi hanno investito le proprie risorse economiche e di tempo.

Sebbene i meccanismi generativi siano stati molto simili in Francia e in Italia, successivamente i due Paesi mediterranei hanno intrapreso strade divergenti. In Francia la mobilitazione spontanea dei cittadini è stata prontamente sorretta dalle autorità pubbliche, che ne hanno riconosciuto la funzione pubblica e le potenzialità per lo sviluppo locale, favorendone così la stabilizzazione e l’ulteriore proliferazione. In Italia, invece, salvo pochi casi, questo sostegno è mancato. Di conseguenza si è affermato un modello più fragile, dai tratti marcatamente volontaristici.

È un peccato, poiché questi laboratori mettono bene in luce le potenzialità dell’economia della collaborazione e rappresentano dei “beni collettivi locali” – creati da privati ma che producono benefici pubblici – che non andrebbero affatto trascurati. Specialmente in un Paese come il nostro che ha un’importante tradizione artigianale che trarrebbe un enorme vantaggio dalla “contaminazione” con il mondo del digitale.

Nonostante la presenza di segnali incoraggianti e di una certa “effervescenza sociale”, in Italia manca la consapevolezza che queste attività collaborative andrebbero sia regolate che sostenute, con apposite politiche. Senza le quali rischiamo di rimanere indietro in una partita – quella dell’economia digitale – che diventa sempre più rilevante. Per rendersene conto basta dare uno sguardo al Digital Economy and Society Index messo a punto dalla Commissione europea per valutare il livello di digitalizzazione degli Stati membri: l’Italia nel 2019 si colloca solamente al 24° posto nella graduatoria generale dei 28 Stati europei, al 26° per quanto riguarda il capitale umano (possesso di specialisti e laureati nel settore Ict; diffusione delle competenze digitali di base e avanzate), e al 25° nell’uso di internet e dei servizi online da parte dei cittadini. Sono dati che parlano chiaro: siamo un Paese in cui l’economia della collaborazione rischia di rimanere confinata nel mondo dell’analogico.