Curiose coincidenze. Ho riletto il saggio del giurista Alberto Predieri sull’articolo 9 della Costituzione (Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Studi per il XX anniversario dell’Assemblea costituente, vol. II: Le libertà civili e politiche, Vallecchi, 1969) mentre mi accingevo a leggere quello dello storico dell’arte Tomaso Montanari, scritto esattamente cinquant’anni dopo. Cinquant’anni giusti sono quelli che separano i due. Entrambi hanno scritto alla stessa età, entrambi a Firenze. Ed entrambi definiscono il paesaggio in modo sostanzialmente analogo. Negli anni Sessanta il paesaggio continua a essere identificato con le “bellezze naturali” tutelate dalla legge 1474/1939, “Protezione delle bellezze naturali”, e limitata a singole parti immobili opera dell’uomo o della natura. La cosiddetta “legge ponte” (la 765/1967) introduce alcune modifiche e integrazioni alla legge urbanistica del 1942, ma non la sostituisce; e da allora nessuna nuova legge è stata approvata.

Predieri definisce il paesaggio come “la forma del Paese, creata dall’azione cosciente e sistematica della comunità umana che vi è insediata nella città e nella campagna, che agisce sul suolo, che produce segni della sua cultura”. Montanari riprende la premessa di Benedetto Croce alla legge 778 firmata dallo stesso Croce nel 1922: “Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico [il paesaggio] altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari […] con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e sono pervenuti a noi”. A mezzo secolo di distanza, lega soprattutto i due saggi l’appassionata e argomentata difesa della nostra Costituzione, che dimostra l’autentico significato delle parole e si oppone alle distorte interpretazioni, ai “tradimenti”, alle cosiddette nefaste “riforme” e soprattutto all’urgenza di attuarle.

Predieri, assistente di Piero Calamandrei nel 1947-’48, approfondisce (non solo giuridicamente) l’inizio del secondo comma dell’articolo 9: “La Repubblica tutela il paesaggio”. Una lunga e complessa analisi per dimostrare che “la tutela del paesaggio assoggetta la dinamica delle sue trasformazioni e quindi gli interventi sul territorio […] ogni modificazione del suolo comporta modificazione del paesaggio”. Richiamandosi all’articolo 3 della Costituzione, tramite l’urbanistica, quale “sub materia” del paesaggio, si può contribuire a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano l’uguaglianza e la libertà dei cittadini. Spiega – dopo due decenni in cui ha trionfato, incontrastata, la speculazione edilizia – che l’azione di “tutela” è volta a proteggere valori non economicistici, ma personali e sociali. Valori comunitari incentrati sulla posizione dell’uomo nel territorio. “La tutela del paesaggio dev’essere intesa come regolazione degli insediamenti umani nel territorio, e non solo come disciplina dello sviluppo delle città”. Sottolinea così la funzione dell’urbanistica quale “sub materia”, appunto, della tutela del paesaggio in cui lo Stato deve intervenire per la parte che lo riguarda. La proprietà privata è salvaguardata dalla stessa Costituzione, ma l’utilizzo dev’essere ricondotto a norme e controllo dello Stato fino a prefigurare persino l’esproprio per pubblica utilità.

Predieri continuerà a sostenere queste tesi quando alcune Regioni ricorreranno contro la cosiddetta “legge Galasso” (legge 43/1985) che, come ricorda Montanari, “segna il tentativo di recepire la giurisprudenza costituzionale mettendo un freno alla deriva regionale e riaffermando il ruolo statale”. Continuando a sostenerla anche quando alcune regioni (poche in realtà) redigeranno piani paesaggistici non tanto per supplire l’inerzia dello Stato, quanto per riaffermare un potere che la Regione (fino alla riforma del Titolo V) secondo Predieri, non ha mai avuto. Piani in seguito variati o ignorati: il progressivo annullamento della pianificazione urbana e territoriale sta alla base della disfatta del paesaggio italiano.

Il mancato accordo delle leggi di tutela del 1939 con l’invariata legge urbanistica del ’42 (legge 1150), gli statuti delle Regioni che raggirano l’articolo 9 introducendo quasi tutte la “tutela dell’Ambiente”, la formazione addirittura di un ministero dell’Ambiente; la riforma del Titolo V accentuano la conflittualità dei poteri fra Stato e Regioni, relegando il paesaggio a “forma visiva” del non citato – nella Costituzione del ’48 – “ambiente”. Un apparente conflitto di potere, teso a paralizzare la tutela e a raggirare le sentenze della Corte costituzionale, molte redatte anche con il contributo di Predieri. Nel suo saggio sul secondo comma dell’articolo 9 non solo la definizione di paesaggio è simile a quella di Montanari, ma anche l’assunto fondamentale (allora molto audace): la tutela del paesaggio investe di diritto anche l’urbanistica, in cui si auspica che gli immobili e i paesaggi, considerati di notevole interesse, siano sottoposti a speciali limitazioni di proprietà. Il paesaggio è un bene comune. Nessuno può dire di sua proprietà ciò che gli appartiene quando è (o deve essere) utilizzato da tutti. Quando diventa ostacolo culturale, economico e sociale, che limita l’uguaglianza e la libertà dei cittadini. Esempio concreto sono i portici di Bologna. Tutti (o quasi) di proprietà privata. Tutti, indistintamente, di “pubblica utilità”. Come un bosco, un prato, una pineta, un panorama, un paesaggio sono indispensabili alla nostra salute, fisica e psichica.

Ho sintetizzato, senz’altro eccessivamente, il saggio di Predieri per sottolineare la sua tesi sulla tutela del paesaggio che comprende la tutela urbanistica. Nel volumetto di Montanari si trova uno sferzante j’accuse, inserito in una coinvolgente e inedita ricerca, che illustra il carattere di un articolo fondamentale della nostra democrazia. Montanari considera l’arte come impegno civile e scrive con il fascino di chi guarda la cultura nei suoi vari aspetti economici e spirituali, politici e sociali, estetici e soprattutto etici; esercita bene il suo mestiere e lo difende esaltando come indice di civiltà e di uguaglianza, la tutela della materia prima della sua ricerca. In questo Costituzione italiana: art. 9 denuncia dell’eclissi gli effetti sociali e culturali, oramai drammatici e devastanti. Dell’articolo in questione, egli non distingue il primo comma dal secondo: la Repubblica con le sue articolazioni non può scindere «lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, dalla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione». Così come Predieri, connette quest’articolo con altri e ne rafforza il senso rivoluzionario di un principio costituzionale che a suo tempo sembrò pleonastico, quasi banale. Mentre oggi è ancor più rivoluzionario. Tant’è che si vuole di fatto cancellarlo, pur continuando a ripetere tutti che è un principio fondamentale per la nostra Repubblica, continuando a impedirne l’attuazione. Rispetto al giurista che approfondisce il significato della “tutela del paesaggio”, lo storico allarga la ricerca e la inquadra nel periodo in cui fu scritta quale ultima e vincente battaglia della guerra di liberazione dalla dittatura fascista, a cui partecipa – armato solo della sua cultura – chi ha come prioritario ideale la libertà e la giustizia. Chi difende la civiltà e l’identità di un popolo.

Come si giunse all’altro concetto chiave del comma primo, «lo sviluppo della cultura»? Secondo Montanari, la “cultura e l’idea che fra i compiti fondamentali della Repubblica si dovesse indicare l’attiva promozione del suo sviluppo stavano a cuore a qualcuno tra i diciotto redattori”. Tra questi “qualcuno” c’è in primo luogo Calamandrei, nel cui pensiero “si trova una lucida consapevolezza del valore civile e politico della cultura, specie in chiave di resistenza critica contro il totalitarismo fascista”. Di Calamandrei rilegge l’arringa di parte civile pronunciata nel 1945 al processo per l’assassinio dei fratelli Rosselli. Ricorda la fondazione di un circolo che Nello e Carlo avevano voluto chiamare “di cultura”, quando si presentò in termini angosciosi il problema morale dell’Italia. Perché mentre i fascisti bastonavano e uccidevano, la gran massa inerte li lasciava fare? E quando, fra il 1935 e il 1940, lo stesso Calamandrei si riuniva a Firenze con amici (fra gli altri, Alessandro Levi, Guido Calogero, Attilio Momigliano, a volte partecipavano anche Benedetto Croce e Leone Ginzburg), per andare a visitare alcuni luoghi nei dintorni, simbolo della civiltà italiana.

«Non erano solo occasioni per stare insieme lontani dalle spie e dall’opprimente clima delle città fasciste: era forte la consapevolezza del valore civile del paesaggio e del patrimonio italiani. Era il territorio straordinario di questo Paese ad aver generato la civiltà: solo da lì era sperabile che essa si rigenerasse ancora, dopo il fascismo». Andavano a cercare il vero volto della patria, consapevoli che non si riesce a dividere la natura dalla storia. Piero Calamandrei ha speso la sua vita al servizio della civiltà. Nell’Inventario della casa di campagna (1941) c’è una frase in cui precisa che solo i notai non s’accorgono come i paesaggi ricchi di storie, miti e riferimenti classici entrano nell’asse ereditario di ciascuno di noi. Il monumento, il quadro o la scultura e la stessa “bellezza naturale” non sono più singolo soggetto, per pochi, unico, documento, indipendente da quell’insieme definito in modo schematico “contesto” sociale e culturale da cui ha tratto e dato forma, sono parte integrante della nostra vita. Sono parte di noi stessi. La tutela del paesaggio, quante volte l’ha ripetuto Antonio Cederna, è tutela della nostra salute.

La tutela nel nostro Paese ha una lunga storia che Montanari ripercorre cogliendo gli aspetti salienti della sua ricerca. Si sofferma sulla non attuazione, considerata fondamentale, dalla Costituzione varata all’inizio della ricostruzione post bellica. Ricorda come Roberto Pane avesse evidenziato, nel 1950, la separazione tra progettazione urbanistica e protezione del tessuto storico del Paese. Le risorse del bilancio statale non erano certo inesauribili, ricordò l’allora ministro Gonella; ma mai più come allora lo Stato ha speso per l’attuazione dell’articolo 9. Montanari suddivide in due periodi la lunga durata della mancata attuazione. Il primo l’attribuisce all’incapacità dei politici di promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca e di stanziare le risorse necessarie per tutelare il patrimonio storico e artistico, mentre “la mancata tutela del paesaggio non fu invece colposa, ma dolosa: fu cioè dovuta alla connivenza del ceto politico con i grandi interessi della speculazione fondiaria e urbana”. Dopo, dal 1985 a oggi, è stato lo Stato a entrare in crisi. Ad autoeliminarsi. Ha dato una “spallata” all’esercizio della tutela con il taglio della metà (un miliardo di euro) del ministero dei Beni culturali e quindi ha considerato la tutela intervento di mera valorizzazione economica, “minando le ragioni stesse della tutela e l’indipendenza di quest’ultima dalla politica”. Il disastro è in corso. L’ultimo governo ha sterilizzato e decimato le Soprintendenze. L’elenco dei misfatti compiuti in onore della valorizzazione ci fa comprendere il baratro in cui stiamo precipitando, anche per colpa nostra. Inerti, assistiamo alla crescente e smisurata disuguaglianza. Non reagiamo al conseguente indebolimento della democrazia. All’inconsapevole messa in crisi del nostro senso d’identità.

La storia dell’arte è una delle scienze che permette di comprendere, di governare e di modificare lo spazio pubblico, lo spazio di cittadinanza, in cui crescono e si sviluppano (attraverso la ricerca e la cultura) la sovranità, l’uguaglianza, e in ultima analisi la persona umana. Il lavoro di Montanari lo dimostra. La sua sferzante requisitoria termina indicandoci come uscire da questa eclissi dell’articolo 9: la condizione è una sola, che si inizi a comprendere che i diritti da esso garantiti non sono diritti delle cose, ma delle persone.

 

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