Nonostante la presenza in Europa di circa 15 milioni di persone nere o di discendenza africana, nel discorso pubblico odierno il continente sembra ancora e solo bianco. Incontriamo ogni giorno donne e uomini neri per la strada, sugli autobus e sui treni, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, ma è come se fossero invisibili. Sono genericamente e solo «migranti», «seconde generazioni» o «rifugiati», categorie riduttive e spesso improprie, come se accanto a noi non ci fossero invece individui complessi, portatori di storie e appartenenze plurali.

Oggi il colore della pelle è come invisibilizzato nel discorso pubblico in nome di un antirazzismo politicamente corretto ma svuotato di sostanza e di memoria storica, che pretende di affermare un’uguaglianza teorica dimenticando il peso di secoli di schiavismo, colonialismo e sfruttamento. Oppure, al contrario, il colore è utilizzato come giustificazione essenzialista di atteggiamenti razzisti e discriminatori, in un’ampia gamma di sfumature, che va dalla violenza allo sfruttamento, dal paternalismo all’infantilizzazione, dall’esotizzazione alla sessualizzazione.

In ogni caso, abbiamo un problema di rappresentazione dei corpi neri nell’Europa odierna che affonda le sue radici nel passato, questione che il recente volume di Olivette Otele, Africani europei. Una storia mai raccontata (Einaudi, 2021), si propone di affrontare fornendo un contributo interessante e provocatorio. A partire dall’uso del termine «afroeuropei», come rivendicazione di cittadinanza plurale di soggetti dimenticati e ritenuti estranei al nostro continente, seppur presenti in vari luoghi e in vari ambiti, ieri come oggi. Recentemente, ad esempio, tra le notizie in diretta dalla guerra in corso in Ucraina, abbiamo distrattamente appreso del respingimento di molti profughi ucraini di origine africana alle frontiere dell’Unione europea (letteralmente, un’espulsione di corpi estranei) a conferma di come, anche in quest’occasione, le politiche umanitarie europee siano ancora tutt’altro che color blind.

Africani europei è un articolato lavoro di sintesi che passa in rassegna le esperienze di alcuni afroeuropei nel corso dei secoli, dagli scambi nel Mediterraneo all’epoca dei Romani, attraverso il Rinascimento, la tratta atlantica e il colonialismo, per arrivare ai giorni nostri. Fornisce un panorama molto ampio, sebbene necessariamente un po’ superficiale, di storie di varie epoche e contesti. Esordisce con la descrizione dei primi contatti tra Europa e Africa nell’antichità. La storia degli afroeuropei comincia infatti molto prima dei più noti capitoli della resistenza allo schiavismo e della lotta degli abolizionisti, nonostante la tratta atlantica segni indubbiamente una cesura fondamentale: con l’avvio dello sfruttamento sistematico della manodopera africana, gli oppressori, si legge nel volume, procedettero infatti «anche a plasmare la storia degli oppressi», e quindi a cancellarne il passato. Da questo momento nasce e si consolida l’idea di intere popolazioni prive di storia, cultura, arte, un processo di «distruzione del passato africano» che lascia spazio solamente all’invenzione della razza e del costrutto del «negro» che, «a differenza dei termini “africano”, “moro” o “etiope”, non suggeriva alcuna collocazione nel tempo, ovvero nella storia, né nello spazio, ovvero nella geografia etnica o politica». 

Con l’avvio dello sfruttamento sistematico della manodopera africana, gli oppressori procedettero "a plasmare la storia degli oppressi" e quindi a cancellarne il passato

Interessante, perciò, quanto emerge sui burrascosi incontri, documentati dal geografo greco Strabone, tra gli abitanti del regno di Kush, nella Nubia, e gli invasori dell’Impero romano, che videro protagoniste le guerriere Candace (regine d’Etiopia). Otele ci descrive poi la figura dell’imperatore Settimio Severo, nato a Leptis Magna, che «cancellò intenzionalmente ogni possibile associazione tra sé e l’Africa», che pure non fu enfatizzata neanche da altri romani africani di nascita, come l‘oratore Marco Cornelio Frontone o il filosofo Apuleio. La leggenda di san Maurizio l’Africano, a capo di una legione egizio-romana che si rifiutò di uccidere i convertiti al cristianesimo, e le vicende dei santi neri Benedetto da Palermo (il Moro) e Antonio da Noto (l’Etiope) sono poi citate come storie esemplificative di un’inclusione della nerezza nelle politiche di canonizzazione della Chiesa e nelle rappresentazioni medievali, già arricchite dall’inserimento di un personaggio africano in molte raffigurazioni dei Re Magi e dalla moltiplicazione delle Madonne nere. Evangelizzazione e conversione al cristianesimo furono naturalmente le ragioni principali di questa svolta.

Come scrive la storica di Bristol, in sostanza «nel XV e XVI secolo le opinioni degli europei sugli africani neri erano più sfaccettate di quanto non potremmo supporre a distanza di secoli». Tra gli afroeuropei del tempo un personaggio di spicco fu Alessandro de’ Medici, primo duca di Firenze: le sue origini sono incerte, ma la versione più accreditata lo vuole figlio di una donna nera. I suoi ritratti, peraltro tutti postumi, lo raffigurano in vario modo, per lineamenti e colore della pelle. Sembra che il suo legame con l’Africa sia stato percepito negativamente solo molto più tardi, e che tra i contemporanei ciò non fosse oggetto di particolare attenzione né di critica, diversamente dalla sua condotta sessuale e dal suo temperamento dispotico.

Del resto all’epoca la famiglia dei Medici intratteneva rapporti con il re cattolico del Kongo, come ci indicano i preziosi olifanti in avorio donati a Cosimo I custoditi nel Tesoro dei Granduchi a Firenze, ora esposti nell’ambito della mostra personale K(C)ongo, Fragments of Interlaced Dialogues. Subversive Classifications dell’artista Sammy Baloji. L’attenzione di questo percorso espositivo è rivolta proprio agli scambi e al dialogo tra Africa ed Europa, certamente motivati dall’obiettivo dell’evangelizzazione e dagli interessi commerciali – poi sfociati nella tratta degli schiavi – ma inizialmente paritari, o almeno amichevoli, come testimoniano questi e altri reperti di origine africana visibili a Palazzo Pitti.

Dalle ricerche degli ultimi decenni sui rapporti tra Europa e Africa, emergono vicende di resilienza e collaborazione che vanno a intersecarsi con gerarchie di razza e di genere

Sono fortunatamente sempre più numerosi i tentativi di rimettere in discussione la rappresentazione stereotipata e monotona dei rapporti immutabilmente impari tra il continente europeo e quello africano nel corso della storia. Dalle ricerche degli ultimi decenni emergono infatti vicende di resilienza e collaborazione, rapporti ambigui e contraddittori che vanno a intersecarsi con gerarchie di razza e di genere. Otele si sofferma ad esempio sulle vicende dei mariages à la mode du pays tra le donne senegalesi e i colonizzatori francesi, così come sulla pratica del cassare (sposarsi) tra le donne ga e i danesi in Africa occidentale, relazioni ambivalenti che talvolta consentivano anche vantaggi economici e possibilità di ascesa sociale, soprattutto per i figli.

In questa direzione anche la finzione letteraria ha proposto recentemente decostruzioni affascinanti dell’immagine piatta e statica dei colonizzati, ad esempio proponendoci un’epica della resistenza etiope all’invasione italiana del 1935, con l’ambizioso romanzo storico Il re ombra, a firma di Mengiste. Oppure portandoci tra gli schiavi nelle piantagioni della Virginia, con le bellissime pagine de Il danzatore dell’acqua di Coates, che, tra le altre cose, ci racconta una vicenda di intelligenza e di mobilità sociale. E ancora, ne La linea del colore di Scego possiamo immaginare una pittrice afroamericana che approda nella Roma cinquecentesca a conclusione di un grand tour iniziato negli Stati Uniti, e che qui completa il suo percorso di creatività e di riscatto.

Negli ultimi tempi non sono mancati insomma spunti e sollecitazioni per approfondire la conoscenza della storia, anzi, delle storie degli afroeuropei, ma siamo ancora all’inizio di un lungo percorso di indagine e di ricostruzione. Si tratta però di una narrazione sempre più necessaria e urgente per aiutarci a ricostruire la genealogia del presente europeo, un’operazione dolorosa e difficile ma fondamentale per poter smantellare pregiudizi e gerarchie odierne, per poter fornire una rappresentazione della società che riconosca pari dignità e cittadinanza a tutte e tutti.