Molti hanno voluto vedere nella Nouvelle vague cinematografica esplosa in Francia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta l'innesco di una volontà di rinnovare temi e forme di un cinema sin lì compattamente tradizionale. E l'esponente della Nouvelle vague più caparbiamente deciso a rivoluzionare la Settima arte, quello più attaccato all'indefessa sperimentazione di ogni possibilità tecnica e formale, è Jean-Luc Godard.

Tuttavia l'etichetta generica di "innovatore" va molto stretta all'autore di Vivre sa vie (1962). E rischia di confinarlo in una fase storica passata, in una "modernità" vista semplicisticamente come velleità di rivoluzione estetica radicale, destinata inevitabilmente allo scacco dalle proprie stesse premesse; e la conseguenza implicita di questa vulgata sarebbe che solo l'avvento provvidenziale del post-moderno poteva mettere una pezza su questa impossibilità che segna indelebilmente il moderno. La proposta estetica di Godard, invece, va molto oltre la generica innovazione, e anzi ha molto da dirci anche in relazione al nostro presente e alla mediasfera dentro cui non possiamo non dirci immersi.

La difficoltà è oggettiva: l'opus godardiano ci si presenta come un impenetrabile muro, un tessuto di riferimenti che spazia praticamente lungo tutto lo scibile umano e i cui nessi vengono sacrificati in nome di una semplice giustapposizione ("pas une image juste, juste une image", recita l'adagio). Una distesa sterminata di frammenti che non vogliono saperne di coagularsi stabilmente, se non per lasciare intravedere (ma è poco più di un'ombra) quella coerenza generica che, in un romanzo, ci aspetteremmo chiamata a raccogliere i pezzi sparsi.

Sessant'anni e passa di interviste hanno provato inconfutabilmente che se c'è qualcuno a cui non dovevamo chiedere chiarimenti era Godard stesso. Quando era interpellato, l'ex enfant terrible svicolava, saltava di palo in frasca, continuava insomma con altri mezzi quello che faceva nei suoi film. Invano cercheremmo una dichiarazione di poetica nelle sue parole (o meglio: ne troveremmo mille). Il discorso è diverso se invece cerchiamo qualcosa di simile (e da qualche parte bisogna pur partire) nel suo dichiarato autoritratto: JLG/JLG (1994), perché già dal titolo è un inesauribile gioco di specchi tra quello che JLG è stato e quello che era, quindi anche tra quello che ha voluto fare e quello che ha fatto.

Già nei primi minuti troviamo il principio chiave della sua estetica, già tante volte enunciato, per esempio quando in Pierrot le fou (1965) fa leggere a Belmondo un passaggio da Elie Faure in cui il critico d'arte racconta che il vecchio Velazquez, ormai senza interesse per le figure, si limitava a dipingere lo spazio tra le cose. Jeannot (il nomignolo con cui JLG si autoritrae) dice di fare qualcosa di simile: affianca due cose lontane per suggerire la relazione segreta che intercorre tra loro. Poco più avanti, un esempio folgorante. Jeannot prende un foglio di carta e traccia la sua definizione di "stereo": tira una linea orizzontale (lo schermo), che diventa un triangolo quando gli si aggiunge il punto antistante corrispondente alla posizione dello spettatore. A questo si sovrappone un altro triangolo, che congiunge le due fonti sonore in sala (a destra e a sinistra dello spettatore) con il punto dello schermo a cui danno voce. Risultato: una stella di David. L'antisemitismo è una forma di stereofonia: ciò che i nazisti hanno proiettato sugli ebrei viene riproiettato, in direzione contraria (come il sonoro rispetto alla relativa immagine in una sala cinematografica), dagli ebrei ai palestinesi.

Tutta la sua opera poggia su uno sterminato e inestricabile repertorio di elementi che potremmo chiamare "segni", ma che segni non sono. Sono pezzi di realtà. Meglio: pezzi di apparenza

Questo ci dice due cose. La prima è che tutta la sua opera poggia su uno sterminato e inestricabile repertorio di elementi che potremmo chiamare "segni", ma che segni non sono. Sono (in linea con la tradizione anti-semiologica deleuziana o pasoliniana) pezzi di realtà. Meglio: pezzi di apparenza. L'esordio con Fino all'ultimo respiro (1960) lo mostra chiaramente: al posto di una storia, abbiamo le macerie sparse di una vaga traccia riconducibile al noir americano (quello di serie B specialmente): una certa postura bogartiana, un personaggio al di sopra della legge ma braccato dal destino, un incontro fatale con una donna... Un ammasso di cliché allo stato brado, avulsi gli uni dagli altri, trattati quali evidenze concrete come fossero un vaso di fiori o un semaforo, i quali vengono dinamizzati da un montaggio che abbonda in discontinuità, che non si cura di mediare tra interminabili tempi e morti e accelerazioni fulminanti, così come non si cura di ricostruire una continuità attraverso un racconto. Non c'è un "senso" che viene ottenuto dal concatenarsi dei segni: c'è invece un ammasso di "intensità intuitive" indifferentemente sonore e visive che, non potendo entrare nel sistema di reciproca differenziazione che è del linguaggio, entrano in una costante tensione irrimediabilmente mobile che il regista si limita a gestire come può.

Il movimento conta più del senso: bisogna prendere alla lettera Godard quando dice che le citazioni (ce ne sono a tonnellate nei suoi film) lui le mette perché "stanno bene là", perché "suonano bene". Come insegna Bande à part (1964), al Louvre non ci si va per vedere i quadri, ma per correre nei corridoi più velocemente possibile. A uno stadio ormai avanzato della sua carriera, Godard darà questa definizione al concetto cruciale di messa in scena: neve sull'acqua. Non un segno che rimanda a un altro segno e così via infinitamente, ma l'accostamento analogico di entità non commensurabili, per ciò stesso in perenne tensione, ma che intrattengono una segreta e inafferrabile corrispondenza (come la neve e l'acqua, appunto). Non si ha la costruzione del senso a partire da unità minime significanti, perché queste unità minime non ci sono: c'è invece una perenne stratificazione e co-implicazione di cose senza comune misura ma in costante tensione. È questo principio che informa la godardiana figura chiave del montaggio: non uno strumento per significare, ma, tanto all'interno dell'inquadratura quanto tra un'inquadratura e l'altra, un mezzo per riprodurre quell'"aggrumarsi" originario in cui sono immerse le cose, e in cui dobbiamo riconoscerci implicati.

Secondo aspetto. L'analogia tra la stereofonia e la triangolazione Germania-Israele-Palestina è interamente risolta nella superficie della sua risoluzione: in una immagine (la stella di David). L'immagine (di nuovo: tanto visiva quanto sonora – in breve: la "percezione immediata"), per Godard, è quel punto in cui il tempo, la tensione infinita che corre tra le cose, la circolazione inesauribile tra le loro analogie, si stabilizza, si arresta e si dà simultaneamente come totalità, tutto in una volta. È in questo senso che deve essere inteso l'aggettivo "romantico" tante volte affibbiato a Godard (non solo per la sua personalità sfuggente e tumultuosa, che ha obbligato la biografia di Antoine de Baecque a estendersi su più di 900 pagine per ricavarne un'immagine coerente): romantica è propriamente la tensione che Godard instaura tra il frammento e la totalità. La preponderanza della sintesi sull'analisi (vecchio ritornello che lui e i suoi amici e colleghi della prestigiosa rivista «Cahiers du cinéma» negli anni Cinquanta amavano ripetere, mutuandolo dalla teoria del romanzo) viene spinta fino a ricercare in continuazione momenti topici (una battuta, uno scorcio paesaggistico, un'accensione cromatica...), punti-limite dell'eloquenza fotogenica capaci di racchiudere in un fuggevole istante tutto quanto si può dire e mostrare – solo per poi riaprire le danze all'infinito.

Per riprendere una celebre immagine di Due o tre cose che so di lei (1967): tutto il cosmo può essere racchiuso in una tazzina di caffè. Ed è in questa medesima direzione che va inteso l'altro slogan godardiano "mostrare e non raccontare"

Per riprendere una celebre immagine di Due o tre cose che so di lei (1967): tutto il cosmo può essere racchiuso in una tazzina di caffè. Ed è in questa medesima direzione che va inteso l'altro slogan godardiano "mostrare e non raccontare"; slogan che non significa "far vedere le cose come stanno invece di stare a raccontare storie", ma intende che il senso delle cose non si afferra con una mediazione, con un'articolazione temporale (un racconto), ma giace sulla loro apparenza, sul darsi delle cose nella simultaneità di ogni loro aspetto, sintetizzato nell'immediatezza del loro apparire. Sempre in JLG/JLG (apparirà bizzarro che qui ci si concentri su un film solo, ma in Godard la totalità è tutta racchiusa nel frammento...), ecco che Godard ripercorre a voce alta un classico della fenomenologia: di una sedia possiamo avere tutta una molteplicità di determinazioni, ma l'immagine della sedia è quella che le contiene tutte, le sintetizza in un'unica e compatta intuizione sensibile.

Sta in questa tensione elettrica tra sincronia e diacronia la modernità del cinema di Godard. Per lui, la modernità è il verbo che si fa carne, l'eterno che irrompe nel e attraverso il sensibile piuttosto che orizzonte a cui il significato linguistico può solo infinitamente avvicinarsi ma mai arrivare. Da qui la mania godardiana di trattare le parole, oltre che come strumento per significare, come materia grafica dotata di un corpo proprio. E da qui, soprattutto, i numerosi film che Godard dedica all'incarnazione e alla resurrezione: Je vous salue Marie (1985), Nouvelle vague (1990), Hélas pour moi (1992). "L'immagine verrà al tempo della resurrezione", motto che il nostro avrebbe derivato (ma non ci sono salde evidenze filologiche in questo senso) da San Paolo. Se è a questa modernità (il verbo che si fa carne) che, secondo il suo Il disprezzo (1963), deve rivolgersi ciò che viene dopo il cinema classico, ciò è ugualmente valido oggi che, al posto di narrazioni, abbiamo (come disse Deleuze parlando del cineasta svizzero) una molteplicità di serie che entrano in reciproca e complessa risonanza analogica. In entrambi i casi, il punto è risalire contropelo la loro sequenzialità e dare una presentazione sintetica del tempo, racchiuso tutto in un istante così pregno che, del tempo, manifesta semmai la negazione.

Questa "altra faccia" dell'instancabile tessersi delle relazioni e delle analogie, quella che ne rompe la dinamica instabilità, è quella a cui la critica, per forza di cose, non ha veramente accesso. Perché è una questione strettamente plastica, è questione di come Godard utilizza luci, linee e colori per dare un'idea immediatamente visuale dello spazio che separa e unisce tra loro le cose. Pittore senza tela e soprattutto senza cornice, Godard, attraverso la sua straordinaria abilità di articolazione geometrica del visibile e dell'udibile senza mai voler fare "un bel quadro", riesce a interrompere l'inesauribile ricerca di relazioni tra ogni singolo "granello" di esistenza, facendo balenare davanti agli occhi la spazialità allo stato puro, la connettività delle cose in sé e per sé, non in atto ma in potenza.

È la stessa cosa che giace al cuore del rapporto tra cinema e storia nelle Histoire(s) du cinéma (1988-1998), autentico opus magnum godardiano. Il suo presupposto è che il cinema ha avuto, ad Auschwitz, un appuntamento con la Storia, ma l'ha perso. Il cinema ha insomma smentito la possibilità di poter documentare la Storia. Tuttavia, questa impossibilità si è ribaltata in vantaggio, perché il cinema, trasfigurando il Mito alle radici, ha "barattato" il contatto impossibile con la Storia con uno, effettivo e assai concreto, con la storicità, con la possibilità di farla e pensarla, la Storia. Le Histoire(s) sono uno smisurato intrico intertestuale, dove un ammasso di rovine cinematografiche (suoni, dialoghi, immagini di un centinaio di anni di cinema, ma anche libri, quadri, poesie...) intrecciano e ingarbugliano innumerevoli storie possibili attraverso il solito rincorrersi delle referenze e delle analogie tra le immagini (secondo alcuni addirittura warburghiano), qui anche più parossistico e indiavolato del solito.

La storia del cinema, secondo Godard, è quella che lo spettatore attiva a partire da una valanga di rovine gettate ai suoi piedi. La fittissima rete di referenze intessuta da Godard facendo interagire insieme sequenze, immagini fisse, scritte in stampatello, dissolvenze, voci fuori campo e quant'altro, non vuole ricostruire una storia, ma suggerire una storicità, la possibilità pura di una ricostruzione. Non a caso, l'espediente più ricorrente in tutto questo magma testuale è il clignotement: un'immagine che lampeggia energicamente e letteralmente scavalca le ramificazioni analogiche che vanno tessendosi sullo schermo.

In pochi casi, come quello di Godard, la vita e le opere consistono in una selva inestricabile, proteiforme, smisurata, ingestibile: tanto vale, piuttosto, limitarsi a mettere qualche paletto sull'approccio estetico di Godard, e di conseguenza su come avventurarsi in questa selva audiovisiva (oggi in gran parte disponibile, anche se non senza difficoltà). Oggi, probabilmente più che mai, viviamo in un ambiente ipertestuale complesso dove i codici si intrecciano senza posa: l'esplosione della scrittura e delle sue ramificazioni, di cui Internet è solo la punta dell'iceberg, ci avvolge completamente. Il cinema di Godard, con il suo doppio binario per cui da un lato si percorrono freneticamente le autostrade dei sensi possibili e delle analogie, mentre dall'altro si assiste all'irruzione dell'immagine come arresto del tempo nello splendore sincronico dell'apparenza, può ancora preziosamente suggerirci che non è tutto lì. Il circuito impazzito delle informazioni non esaurisce l'esistente, è strutturalmente possibile uno scatto verso un livello diverso: la spazialità non si esaurisce con lo spazio che ci è dato percorrere.

Un tempo, nei suoi anni di più esplicito impegno politico a cavallo tra Sessanta e Settanta, Godard avrebbe parlato, in questo senso, di critica dell'ideologia. Oggi, non meno politicamente rilevante di allora, il suo cinema fa pensare piuttosto all'esigenza descritta da Paolo Virno in E così via, all'infinito, quella di legare il "regresso all'infinito", caratteristico dell'animale-uomo, al proprio arresto. E ci ricorda che, oltre a essere produttori-consumatori della giungla di segni che abitiamo, ci è dato anche accedere a quel livello ulteriore rispetto ai segni che "sospende" questi ultimi e li apre a un orientamento diverso, al loro risvolto potenziale, che non si esaurisce in ciò che di essi ci sembra dato una volta per tutte.