Tornato da Riad, Matteo Renzi ha cercato di fermare le polemiche sulla tempistica del suo viaggio, sostenendo che adesso era il momento di parlare «del futuro dell’Italia, non del futuro dei sauditi». Ogni critica alla partecipazione di Renzi come ospite d’onore alla conferenza della Future Investment Initiative è stata respinta da lui e da Italia Viva sostenendo che si trattava di una comparsa a un evento di prestigio di politica internazionale – cosa «comunissima» – senza nessun legame con questioni di politica interna.

Tuttavia, a guardare bene, un legame c’è, eccome.  Anzi, diciamo pure che è impossibile separare la sfera della performance geopolitica sulla scena globale da quella della politica italiana interna, inclusa la battaglia per il totoministri che ha catturato l’ultima coda della crisi di governo prima della comparsa in scena di Mario Draghi. Ed è un legame che Renzi dovrebbe essere costretto a rendere esplicito, visto che i motivi della sua visita a Riad possono essere solo due. Proviamo a spiegare.

La forte pressione di Italia Viva in questi giorni di consultazioni per ottenere il ministero delle Infrastrutture appare legata al fatto che con l’arrivo dei fondi di Next Generation Eu il ministero di Infrastrutture e trasporti (al cui spacchettamento Renzi si opponeva) diventerà un portafoglio chiave per il futuro prossimo dell’Italia. Ma le infrastrutture sono anche un fulcro chiave della geopolitica globale di oggi: sia le grandi opere transnazionali come la Belt and Road Initiative della Cina (e qui pure, come ci ricordava Martino Mazzonis proprio su queste pagine, l’Italia occupa una posizione alquanto ambigua) sia le infrastrutture nazionali, quelle che fanno parte del nostro vissuto quotidiano (e che dovrebbero essere potenziate con i soldi del Recovery Fund).

Ma che cosa c’entrano i progetti per le infrastrutture del nostro Paese con il viaggio di Renzi? La sua intervista al principe Mohammed bin Salman è centrata su un tema molto specifico: la Saudi Vision 2030, il progetto decennale con il quale il principe mira a rimodellare le geografie della nuova Arabia Saudita post-petrolifera e post-pandemica. Tale visione è impostata sulla creazione di un fondo sovrano (tramite la vendita di azioni della società di energia Aramco) destinato a sviluppare nuovi settori economici che dovrebbero aiutare il Paese a rendersi indipendente dall’economia del petrolio nell’era post-Covid, e nel quale lo sviluppo di nuove mega-città «green» e «smart» gioca un ruolo chiave.

Ma per quanto Renzi possa elogiare la costruzione di queste futuristiche mega-città green e smart come Al Oula o Neom – che promettono un «approccio rivoluzionario alla vita urbana» con «zero macchine, zero strade e zero emissioni» e portatrici, sempre secondo Renzi, di un «nuovo rinascimento» – tale piano di sviluppo è basato non solo su politiche economiche molto poco sostenibili, ma anche su una visione della governance di territori e popolazioni violenta e militarizzata.

Come abbiamo fatto notare altrove, lodare il contesto saudita come esempio da seguire rivela una profonda ignoranza delle dinamiche del Paese. Il famoso basso costo del lavoro che rende possibile la costruzione di queste città (e che Renzi ha confessato di invidiare al principe bin Salman) si basa su un sistematico sfruttamento di operai stranieri che lavorano in condizioni di semi-schiavitù e vivono in favelas nascoste nei cantieri di queste città-in-divenire. Le nuove città saudite si prospettano, dunque, come spazi urbani divisi: spazi segregati dal punto di vista residenziale, ma anche dal punto di vista di quel «diritto alla città» formulato da Henri Lefebvre e David Harvey, poiché escludono interamente la manodopera straniera «fantasma» essenziale per la loro costruzione e manutenzione quotidiana. Il sogno futuristico prospettato dalla Saudi Vision 2030 dal quale Renzi pare abbagliato, assomiglia più alla città di Blade Runner o Code 46 che a un futuro rinascimento: come la mega-città di Neom che si snoda non solo in maniera lineare, ma anche verticale, formata da 170 chilometri di strati di infrastrutture e tecnologie smart, dalle gallerie del suo sottosuolo al cielo (un cielo nel quale voleranno anche elicotteri venduti da Leonardo, che fungeranno sia da ambulanze che trasporto persone).

Ma lo sviluppo delle smart cities prospettato dalla Saudi Vision 2030 si basa anche su un altro tipo di infrastruttura: quella della sorveglianza. Le nuove città dell’Arabia Saudita sono infatti un esempio eclatante di quello che i geografi chiamano surveillance urbanism (urbanismo di sorveglianza). Per funzionare, le smart-cities si appoggiano sulla continua raccolta di big data, essenziali per tutte le loro funzioni, dalla pianificazione dei trasporti, al monitoraggio della sostenibilità ambientale. In queste città, la stessa governance locale viene affidata al machine learning e all’intelligenza artificiale: da un lato, sostituendo lo Stato, ma dall’altro potenziando il suo ruolo che adesso riesce a penetrare in tutti gli spazi, anche quelli più banali e personali. In un contesto di teocrazia autoritaria come l’Arabia Saudita, le smart cities hanno tutti gli ingredienti per diventare spazi di esclusione, violenza e repressione, il tutto normalizzato dall’uso delle tecnologie digitali. Così, le pervasive tecnologie di telecamere a circuito chiuso, giustificate come «rafforzamento infrastrutturale» contro la minaccia del crimine o terrorismo, permettono anche il controllo delle popolazioni. Per lo Stato saudita, diventano parte chiave della ambita complete situational awareness garantita proprio dalle compagnie che forniscono programmi di sicurezza urbana nel Paese. Le infrastrutture del futuro rinascimento saudita sono, in altre parole, tutto tranne che innocenti.

Ci sono due possibili chiavi di lettura della kermesse di Renzi per la Saudi Vision 2030, dunque. La prima è che sia stata fatta per promuovere gli interessi economici italiani. Se così fosse, allora Renzi si troverebbe in chiaro conflitto di interessi e in una zona di incompatibilità con il suo ruolo quale senatore della Repubblica. L’altra possibile lettura è ugualmente preoccupante: se Renzi crede veramente nel modello di sviluppo neo-rinascimentale saudita, come possiamo pensare di affidare a lui la gestione delle risorse del Recovery Fund e il ministero delle Infrastrutture dell’Italia post-pandemica? I fondi Next Generation EU prevedono, sì, un ruolo chiave per le infrastrutture digitali – ma intese esplicitamente a favorire processi di inclusione e coesione (sia territoriale che sociale): aspetti che sono in netta contraddizione con il modello urbano saudita. C’è da augurarsi, allora, che la Saudi Vision 2030 abbia in comune con il programma Ciao 2030 (Cultura, infrastrutture, ambiente, opportunità) di Italia Viva solo il richiamo temporale.