Dopo mesi di altissime tensioni, la tanto temuta offensiva di Mosca contro Kiev all’alba del 24 febbraio ha avuto inizio. I servizi di intelligence e le cancellerie occidentali avevano previsto un’invasione imminente già da novembre. Ma nonostante l’enorme dispiegamento di forze, per due mesi Mosca non è passata all’azione. Come spiegare la tempistica dell’attacco? Il casus belli è scaturito nel fronte che fino a quel momento era stato il più tranquillo, ossia quello del Donbass tra i separatisti russofili e le forze di Kiev. È stata l’escalation in questa guerra per procura che ha permesso a Putin di trovare un escamotage per l’uso della forza contro Kiev, giustificare la necessità dell’attacco alla popolazione russa e mostrare la credibilità delle sue minacce all’Occidente.

L’escalation degli ultimi giorni non rappresenta l’inizio di un una nuova guerra, ma è l’atto più recente del conflitto civile internazionalizzato in Ucraina, che perdura ormai da otto anni e, avendo mietuto più di 14.000 vittime, rappresenta la guerra più sanguinosa in Europa dalla dissoluzione della Jugoslavia ad oggi. Il conflitto ebbe inizio con le proteste di Euromaidan che portarono alla caduta del governo Yanukovych per via della sua contrarietà all’accordo di associazione con l’Ue. Le contro-proteste scoppiate nelle regioni sud-orientali ucraine a maggioranza etnica russa, secondo molti fomentate da infiltrati del Cremlino, portarono all’occupazione della Crimea da parte delle truppe russe, alla successiva annessione della stessa alla Federazione Russa nel marzo del 2014 in seguito a un referendum; e a un conflitto territoriale tra le Repubbliche separatiste di Donetsk e Luhans’k, assistite e fomentate da Mosca, e il governo centrale. Sebbene il protocollo di Minsk II nel 2015, firmato da Russia e Ucraina sotto gli auspici dell’Ocse, prevedesse la reintegrazione delle regioni separatiste in un’Ucraina federale, i leader separatisti hanno continuato la guerra, puntando all’indipendenza totale da Kiev. Il Cremlino ha continuato a supportare i separatisti, fornendo loro armi, passaporti, e assistenza militare, sfruttandoli come pedine in una guerra per procura (proxy war) contro l’Ucraina.

Eppure, fino a pochi giorni fa, non vi erano notizie di di un'intensificazione del conflitto nel Donbass. I dati dell’Armed Conflict Location and Event Data Project (ACLED) mostrano, anzi, una diminuzione della violenza nella regione per tutto il 2020 e il 2021. Il fulcro della discussione tra Mosca, Kiev e la Nato si è concentrato sulla neutralità dell’Ucraina e sulla postura dell’Alleanza atlantica in Europa orientale, tralasciando lo status delle regioni separatiste. Inoltre, secondo stime del Center for Strategic and International Studies (CSIS) – rivelatesi corrette – le direttrici dell’invasione russa avrebbero bypassato il Donbass, puntando sui grandi centri abitati ucraini come Kiev e Karkiv e sulle città costiere sul Mar Nero. Insomma, sembra che la dimensione internazionale del conflitto abbia del tutto superato la questione della guerra civile e per procura.

La situazione nel fronte è cambiata all’improvviso il 17 febbraio. Quel giorno, i leader delle Repubbliche separatiste hanno dichiarato di essere stati esposti a bombardamenti indiscriminati da parte dell’esercito ucraino,e hanno ripreso le operazioni militari in risposta. Il giorno dopo, i ribelli hanno iniziato a evacuare in massa le popolazioni di etnia russa dalle zone di confine (sembra però che molti siano stati evacuati contro la propria volontà). Tutto fa pensare che l’escalation nel Donbass sia stata un'«operazione sotto falsa bandiera»: un attacco orchestrato da parte delle Forze armate sulla propria popolazione o sul proprio territorio, volto a giustificare una risposta militare. Sembra impossibile pensare che Kiev, nel bel mezzo della più grave minaccia internazionale alla sua sicurezza e con centinaia di migliaia di truppe nemiche ammassate al confine, avesse deciso di attaccare le regioni separatiste. Anzi, Kiev aveva dato ordine alle proprie truppe di non sparare per evitare di fornire un pretesto agli avversari.

La Russia aveva un chiaro interesse ad aumentare le tensioni. Le Repubbliche del Donetsk e Luhans’k puntavano all’indipendenza e un’escalation militare tra Kiev e Mosca avrebbe giovato alla loro causa

D’altro canto, sia la Russia che i suoi proxies avevano un chiaro interesse nell’aumentare le tensioni. Le Repubbliche del Donetsk e Luhans’k, come detto, puntavano all’indipendenza, e un’escalation militare tra Kiev e Mosca avrebbe giovato alla loro causa. È dunque possibile che i separatisti abbiano deciso di agire indipendentemente. La letteratura scientifica sulla «delegazione del conflitto» suggerisce che i proxies a cui attori esterni forniscono aiuto militare non sono alle dipendenze assolute del proprio patrono, ma hanno interessi distinti che cercano di perseguire in maniera autonoma. Inoltre, vista la maniera goffa e poco sofisticata in cui l’operazione è avvenuta – molti residenti del Donbass non sembrano credere alle notizie di un attacco ucraino o russo – è possibile che siano effettivamente stati i separatisti ad agire, coordinandosi con Mosca ma non sotto il suo diretto controllo.

A prescindere da chi tra i due attori abbia creato la falsa bandiera, essa ha avuto conseguenze fondamentali per l’evoluzione della crisi, marcando un punto d’inflessione nella strategia del Cremlino. Prima del 17 febbraio, Putin sembrava in stallo. Le richieste massimaliste promulgate lo scorso novembre – due trattati che contenevano richieste di «garanzie di sicurezza», inclusa una promessa giuridicamente vincolante che l’Ucraina non si sarebbe unita al trattato nordatlantico, nonché una riduzione delle truppe e dell'equipaggiamento militare dell’Alleanza di stanza nell'Europa orientale – non erano state accettate dall’Occidente, i cui incentivi erano ridotti dalla mancanza di assicurazioni sulla de-escalation da parte del Cremlino. Inoltre, per contrastare gli avvertimenti occidentali su un’invasione imminente, la campagna mediatica di Mosca aveva dichiarato, fino a quel punto, che non vi erano piani per l’invasione . Ciò era probabilmente dovuto al sentimento della popolazione russa: secondo un sondaggio pubblicato dal «Washington Post», solo l’8% degli intervistati russi era favorevole all’invio di truppe in Ucraina.

L’escalation nel Donbass si è rivelata uno strumento fondamentale per Putin, consentendogli di trovare una giustificazione plausibile per l’uso della forza contro Kiev

Vista la situazione, l’escalation nel Donbass si è rivelata uno strumento fondamentale per Putin. In primo luogo, ha permesso al presidente russo di trovare una giustificazione plausibile per l’uso della forza contro Kiev. Pochi giorni dopo, la Russia ha riconosciuto le regioni separatiste di Donetsk e Luhans’k come Stati indipendenti. Di conseguenza, Putin ha potuto giustificare l’ingresso di truppe russe nella regione e la successiva operazione militare come una risposta all’appello di uno Stato sovrano sotto attacco. In secondo luogo, la macchina di propaganda interna russa si è messa in moto per aumentare il sostegno interno a un’operazione armata, seguendo un copione simile a quello che nel 2014 precedette l’annessione della Crimea. In risposta allo sfollamento di popolazioni russofone, il Consiglio Nazionale di Sicurezza ha accusato l’Ucraina di star commettendo atti di «genocidio». Putin ha accentuato l’unità storica dei popoli russo e ucraino, suggerendo che la loro separazione in due stati sia artificiale.

Nel discorso di riconoscimento delle Repubbliche separatiste Putin è andato oltre, mettendo in discussione l’intera storia ucraina e definendola un Paese «corrotto e controllato dall’Occidente». In terzo luogo, la Russia ha potuto dimostrare la credibilità delle proprie minacce verso l’Occidente, e formularne di nuove. Quando, all’alba del 24 febbraio, Putin ha dato ordine di «disarmare» e «denazificare» l’Ucraina ha usato un linguaggio vago che non chiarisce gli obiettivi dell’invasione bellica, ma che fa capire che non sarà limitata a pacificare la zona del Donbass. Ha minacciato conseguenze catastrofiche per chiunque interferisse in questa «operazione militare speciale», facendo velati riferimenti a un conflitto nucleare contro la Nato. Dopo aver fatto seguire l’azione bellica alle minacce, evidentemente il Cremlino spera che le prossime richieste russe verranno prese più seriamente.

In conclusione, l’invasione russa dell’Ucraina è legata a doppio filo alla guerra per procura che si è protratta negli ultimi otto anni: senza l’escalation nella frontiera del Donbass, Putin avrebbe avuto molte più difficoltà a giustificare un’azione militare. La posta in palio, adesso, è però molto più alta. Le forze ucraine stanno offrendo una resistenza più accanita di quanto i russi si aspettassero, il ché probabilmente porterà il Cremlino ad aumentare la propria potenza di fuoco e il livello di violenza. L’Occidente sta rispondendo annunciando aiuti militari a Kiev e sanzioni sempre più forti contro Mosca, ma ci si domanda se esse saranno sufficienti a far fare a Putin un passo indietro. Le conseguenze dell’invasione non sono ancora chiare, ma una cosa è certa: da conflitti civili localizzati possono scaturire sviluppi che mettono a dura prova la sicurezza dell’Europa, e forse del mondo intero.