Dopo anni di consenso attorno al dogma del maggioritario, ha ripreso campo il dibattito sulla revisione in senso proporzionale della legge elettorale: una riforma che potrebbe avere effetti benefici sul nostro sistema democratico, a patto però di rifuggire da automatismi troppo semplicistici e di non ignorare gli interessi e le visioni contraddittorie che questa scelta comporterebbe.

Alcuni vedono nel ritorno al proporzionale la presa d’atto di una situazione che proprio la rielezione di Mattarella ha certificato, e cioè lo sfarinamento dei due blocchi che si erano formati all’ombra del governo Conte II: se le coalizioni non stanno più unite – è il ragionamento di fondo – tanto vale ricorrere a un meccanismo elettorale che permetta a ogni partito di pesarsi singolarmente nell’agone elettorale. Il male della frammentazione che uscirebbe dalle urne non verrebbe poi per nuocere, se proprio in virtù di questa frammentazione i partiti fossero costretti a riproporre un esperimento simile, se non analogo, a quello dell’attuale governo Draghi. Questa visione attribuisce alla riforma proporzionale una funzione “conservatrice”, di stabilizzazione dello status quo: un fine talmente esplicito da non richiedere esegesi troppo lambiccate.

Altri invece, specialmente a sinistra, assegnano al ritorno al proporzionale un implicito effetto costituente. La riforma elettorale auspicata farebbe da lievito per una rinata civiltà dei partiti; la funzione che questi ritroverebbero li spingerebbe di per sé a strutturarsi, a rivestire il ruolo costituzionale loro assegnato dalla Carta del ’48, e di conseguenza a formare élite dirigenti all’altezza delle sfide che attendono il Paese. A questa riproposizione del proporzionale è dunque connaturato un giudizio negativo sulla stagione che abbiamo alle spalle: il maggioritario, almeno nelle versioni e nelle condizioni con cui è stato impiantato nel nostro Paese, avrebbe squalificato il ruolo che la Costituzione affida ai partiti e destrutturato le basi della democrazia parlamentare.

Il nodo della ricostruzione di un sistema di partiti non può essere scisso da quello della rappresentanza di interessi e valori ideali contrapposti. Una dinamica che la riforma elettorale potrebbe facilitare, ma non direttamente produrre

Ma, ammesso e tutt’altro che concesso che l’attuale Parlamento abbia la volontà e la forza di attuare un cambiamento di vasta portata come la riproposizione del proporzionale, basterebbe questa riforma elettorale per raggiungere l’obiettivo conclamato? Sarebbero sufficienti le dinamiche insiste nel proporzionale per ricostruire una civiltà, o quanto meno una Repubblica, dei partiti? Sarebbe automatica una loro autoriforma? I partiti nascono o si fortificano in seguito all’avvertita necessità di organizzarsi da parte di pezzi di società civile secondo determinati schemi ideali. Il nodo della ricostruzione di un sistema di partiti non può essere scisso da quello della rappresentanza di interessi e valori ideali contrapposti. Una dinamica che la riforma elettorale potrebbe facilitare, ma non direttamente produrre.

Quando, nella fase post-risorgimentale, un primo abbozzo di sistema di partiti iniziò a impiantarsi anche nel nostro Paese, le regole elettorali si basavano su un censo ristretto e garantivano il notabilato locale. Eppure settori crescenti di società civile, dapprima limitati alle campagne della pianura padana, poi allargatisi alle città del triangolo industriale e finalmente, ancorché con evidenti squilibri, a tutta la nazione, seppero darsi una forma partito moderna nel Psi. Il proporzionale divenne una richiesta democratica pressante, propria dei socialisti, via via che si allargava il censo elettorale e la società italiana si politicizzava.

Ma a una riforma vera e propria non si arrivò che nel primo dopoguerra. Allora anche i cattolici decisero di dotarsi di un proprio partito teso alla rappresentanza della piccola e media proprietà contadina; e, in un quel frangente di vera e propria esplosione di partecipazione politica, perfino i vecchi liberali iniziarono un dibattito sulla necessità di dotarsi di uno strumento partitico, un dibattito poi interrotto dall’accettazione maggioritaria da parte loro della subordinazione al fascismo. Nel secondo dopoguerra i costituenti non ritennero necessaria l’inclusione del proporzionale nella Carta, forse perché dato per scontato; di sicuro a essere data per scontata era la capacità dei partiti di dare rappresentanza in senso pluralistico a ogni settore della società civile.

Più recentemente, a partire dalla crisi del 2008, siamo tornati a osservare l’evidenza della nascita di nuovi partiti, o del rinnovamento profondo di quelli esistenti, in conseguenza della loro capacità di rappresentare fermenti nuovi scaturiti nella società, a prescindere dai sistemi elettorali nei quali si trovavano a operare. Il caso più famoso è quello di Podemos, in Spagna. In Grecia, d’altro canto, Syriza ha visto lievitare la propria consistenza grazie alla sua capacità di farsi interprete delle lotte contro l’austerità. E perfino i democratici Usa sono stati attraversati, seppure in maniera contrastata e contraddittoria, da correnti di profondo rinnovamento.

Da noi, quando la crisi è scoppiata, era stato da poco fondato il Partito democratico. La fondazione del Pd risale a un un’epoca nella quale ancora si pensava che la “globalizzazione reale” fosse – e avrebbe continuato a essere – un fattore di progresso per l’intera società, e soprattutto per una classe media, espressione dei settori creativi della finanza e della cultura, cui il partito guardava come al perno della vita nazionale, in quanto strutturalmente capaci di trarre profitto dalle opportunità di un mercato mondiale sempre più aperto. Il Pd, dunque, si presentò ai cittadini come un partito post-ideologico, post-nazionale e post-classista, che avrebbe efficacemente guidato l’inserimento dell’Italia nel villaggio globale, assicurando al tempo stesso il mantenimento di livelli di Welfare accettabili per resistere alla crescente precarizzazione degli impieghi. Lo stesso europeismo era considerato non tanto un progetto di un’entità politica continentale con una forte identità sociale, quanto una via privilegiata per inserire il Paese nella rete delle interdipendenze globali, rompendo le rigidità che rendevano difficile questa operazione.

Finché ha avuto senso l’antiberlusconismo militante, che assicurava un’identità progressista, e, d’altra parte, si manteneva un clima sociale accettabile, il progetto pareva andare incontro a un futuro promettente. È stata la crisi a far saltare il banco. Da quel momento in poi il Pd ha sempre più identificato la propria missione con quella della stabilità istituzionale (il Pd come partito del governo e non di governo, come ha lasciato intendere uno scettico Cuperlo al momento del varo del governo Draghi).

D’altro canto, a differenza di quanto accaduto in altri Paesi europei (Grecia, Francia, in parte Spagna) la sinistra socialista in Italia non è riuscita a soppiantare l’egemonia di quella liberale. Anche per questo la protesta contro la crisi è stata egemonizzata da un ceto medio di orientamento ondivago, che ha preso la via del Movimento 5 stelle o della destra nazionalista, a seconda delle inclinazioni ideologiche, della localizzazione geografica (non solo secondo l’asse Nord/Sud, ma anche secondo quello centro/periferia e metropoli/provincia) e delle fasce generazionali.

La protesta contro la crisi è stata egemonizzata da un ceto medio di orientamento ondivago, che ha preso la via del M5S o della destra nazionalista a seconda delle inclinazioni ideologiche, della localizzazione geografica e delle fasce generazionali

L’irruzione di un soggetto politico nuovo come il M5S non sembra riuscita a raddrizzare la distorsione che, anche grazie all’adozione del maggioritario, ha segnato il rapporto tra politica e società civile: a partire infatti dalla crisi dei partiti storici, la politica si è ridotta a gioco a somma zero tutto interno alle classi dominanti. Si è pienamente impiantato, a partire dagli anni Novanta, quel modello elitario-competitivo a suo tempo descritto da McPherson, in base al quale l’esercizio della democrazia si riduce ad un periodico agone elettorale finalizzato alla scelta di gruppi dirigenti chiamati a governare, per così dire, a senso unico; l’alternanza, in base a questo modello, ruota attorno a un perno fisso senza che reali alternative di potere e di società possano trovare rappresentanza politica. Franco De Felice descrive questo modello come un “trasformismo dispiegato”: un trasformismo a tal punto introiettato dei vari competitor politico-elettorali da aver dato vita a un sistema a partito unico, le cui correnti si alternano al governo in base a criteri di “onestà”, di “competenza”, di fedeltà maggiore o minore al vincolo esterno nelle sue varie formulazioni, ma mai di rappresentanza di interessi contrapposti.

In questo contesto, l’apatia elettorale, che a ogni elezione si manifesta come il vero e unico segnale tollerato di opposizione, è in realtà, al di là delle costernate dichiarazioni a favore di telecamera, funzionale all’invocata stabilità.

Il varo di una legge elettorale proporzionale potrebbe senza dubbio contribuire a rompere la gabbia del “trasformismo dispiegato” e a ricucire il rapporto sbrindellato tra politica e Paese reale, tra società e partiti. A patto però che questi ultimi si pongano finalmente il tema della rappresentanza dei grandi interessi sociali esclusi negli ultimi decenni dall’agenda politica.