Ciclicamente, il dibattito pubblico torna a concentrarsi sul Reddito di cittadinanza, per stigmatizzare gli effetti «nefasti» che questa misura di sostegno al reddito e all’inclusione sociale avrebbe sulle imprese e sulla stessa ripresa economica. L’argomento fondamentale speso dal fronte ostile è semplice: i percettori del reddito (il cui importo medio, secondo il rapporto Inps, oscilla attorno a 550 euro mensili per nucleo familiare percipiente) preferirebbero ricevere il denaro e rimanere tranquilli sul proprio divano, invece di accettare le mansioni di cui necessitano molte imprese.

È una vulgata che non convince e che non regge alla prova delle sperimentazioni che, nel corso dei decenni, hanno riguardato misure simili al Reddito italiano. Anzi, i dati di queste sperimentazioni sono assai incoraggianti, tanto più per un Paese che annovera l’emancipazione personale, in primis attraverso il lavoro, tra i principi che dovrebbero guidare l’azione dei poteri pubblici.

Questa vulgata affonda le radici in una convinzione antica, secondo cui la povertà sarebbe essenzialmente figlia della cattiva volontà dell’indigente. Essa ha avuto un seguito assai significativo fino alla metà del Novecento ed è stata poi ripescata con la svolta liberista dell’ultimo ventennio del secolo. La retorica del lazy poor, d'altra parte, aveva trovato consacrazione grazie alla Royal Commission into the Operation of the Poor Laws, che nel 1832 abbraccia in modo superficiale la diceria secondo cui le Speenhamland laws (un sistema di integrazione salariale vigente all’epoca in Inghilterra e Galles) disincentivano i beneficiari dalla ricerca di un’attività lavorativa, perpetuandone quindi lo stato di indigenza. Quanto al tempo più recente, essa riemerge con forza negli Stati Uniti al tempo della presidenza Nixon, quando prende piede la controffensiva del pensiero conservatore, generosamente foraggiata da importanti soggetti economici. Una delle prime vittime di questo cambiamento è la war on poverty, sostituita da una guerra ideologica all’activist government e al Welfare State.

L’argomento fondamentale speso dal fronte ostile alla misura è semplice: i percettori del reddito preferirebbero ricevere il denaro e rimanere tranquilli sul proprio divano, invece di accettare le mansioni di cui necessitano molte imprese

In questo contesto, la retorica del lazy poor collima perfettamente con la generalizzazione dell’homo oeconomicus quale modello fondamentale sulla cui base interpretare il comportamento umano, e nel corso degli anni diviene senso comune, anche al di fuori del contesto statunitense.

L’elemento curioso di questa storia è che la retorica del lazy poor riemerge proprio in concomitanza di alcuni esperimenti su larga scala che, sempre negli Stati Uniti, erano stati fatti per valutare, sulla base di elementi fattuali e concreti, gli effetti di un reddito di cittadinanza sui percipienti e, in particolare, sulla loro partecipazione al mercato del lavoro. Esperimenti i cui risultati contraddicono in misura chiara (si vorrebbe dire incontrovertibile, se non fosse un termine poco adatto al metodo scientifico e ai suoi processi di falsificazione) l’assunzione fondamentale su cui è costruita la retorica in parola.

Si è trattato di quattro distinti esperimenti che, nel complesso, hanno coinvolto quasi 9.000 nuclei familiari, stratificati quanto a composizione, gruppo sociale di appartenenza e, in misura necessariamente più limitata, luogo di residenza, e che erano caratterizzati da un reddito complessivo inferiore a una data percentuale della soglia di povertà (in due casi fissata al 150, in un caso al 180 e nell’ultimo al 240%). A tali gruppi è stato offerto un sostegno pubblico significativo, di solito con un orizzonte triennale, accompagnato da un’aliquota piuttosto alta per i redditi eventualmente percepiti in regime di sostegno. Così, a fronte di un sostegno pubblico di 5.000 dollari, un eventuale reddito aggiuntivo, autonomamente percepito dal nucleo familiare, di altri 5.000 dollari poteva essere tassato con aliquote variabili (a seconda del progetto) ma vicine o superiori al 50% e ciò fino al completo abbattimento del sostegno. Inoltre, al contrario del Reddito di cittadinanza italiano – che prevede meccanismi volti a promuovere attivamente il reinserimento professionale del percipiente –, i regimi di cui agli esperimenti statunitensi non prevedevano particolari oneri per il beneficiario, quanto alla ricerca o all’accettazione di eventuali offerte lavorative.

I risultati di questi esperimenti sono stati globalmente molto positivi. Volendo sintetizzare in poche battute un quadro in verità articolato, il primo dato che emerge è la generale tenuta delle ore lavorate, il cui calo è generalmente rimasto entro il tetto del 10%: la percezione del reddito non ha diminuito significativamente l’impegno lavorativo di chi già aveva un lavoro né, soprattutto, ha fatto calare in modo drammatico l’impegno nella ricerca di un'occupazione pe chi non l'aveva. Al contempo, la parte più significativa del calo delle ore lavorate è stata causata da due comportamenti che poco hanno a che vedere con l’azzardo morale paventato dai fautori della retorica del lazy poor: vale a dire, i maggiori tempi di attesa nella ricerca di un’occupazione di buona qualità e la più lunga permanenza nei cicli dell’istruzione, specie da parte dei giovani maschi adulti.

La retorica del lazy poor riemerge proprio in concomitanza di alcuni esperimenti su larga scala che erano stati fatti per valutare gli effetti di un reddito di cittadinanza sui percipienti e, in particolare, sulla loro partecipazione al mercato del lavoro

Per completezza, è necessario altresì evidenziare che il calo più significativo nelle ore lavorate ha riguardato le madri, sia in nuclei familiari bi-genitoriali, sia soprattutto in nuclei monogenitoriali. Si rammenti però che, negli anni Settanta, il modello familiare di gran lunga più diffuso è quello tipicamente parsoniano, incentrato sulla figura del male bread-winner: in questo contesto sociale, l’integrazione salariale ha spinto una percentuale significativa di donne verso un maggior impegno per il lavoro di cura. Si tratta di un elemento a cui prestare attenzione, laddove si voglia perseguire efficacemente l’obiettivo dell’inclusione sociale oltre al semplice sostegno reddituale, ma che non è tale da inficiare il significato complessivo degli esperimenti condotti.

Globalmente analizzati, i risultati dei quattro esperimenti contraddicono chiaramente l’assunto che il sostegno pubblico determini una riduzione dell’impegno dei singoli nel partecipare al mercato del lavoro. Tale risultato trova peraltro conferma anche in altre sperimentazioni minori condotte in tempi più recenti, come quella finlandese del 2017-2018 (non si considerano invece i dati italiani in quanto influenzati in misura decisiva da un evento di portata eccezionale – la pandemia da Covid-19 – con evidenti conseguenze economiche).

Dalla sperimentazione statunitense emergono due ulteriori circostanze meritevoli di attenzione: in primo luogo, la previsione di un reddito del genere considerato favorisce un miglior livello di scolarizzazione, anche terziaria; inoltre, dà al percipiente la possibilità materiale di cercare un’occupazione più consona ai suoi desideri e alle sue abilità, con un beneficio potenzialmente significativo non solo per il singolo, ma anche per la collettività.

Per ciò che concerne l’istituto italiano, le sperimentazioni di cui si è dato conto portano a fare due distinte riflessioni. La prima concerne la scarsa capacità del dibattito pubblico di andare oltre la precomprensione ideologica e di non cadere nel più facile confirmation bias. Convinti in partenza che il percettore di un reddito di cittadinanza smetterà di cercare un’occupazione, enfatizziamo gli episodi di cronaca – statisticamente poco significativi – che confermano questo pregiudizio, senza dare peso a studi anche approfonditi che invece smentiscono il nostro assunto di base. Ciò non significa che l’esperienza statunitense sia integralmente replicabile in un contesto per molti versi dissimile quale quello italiano: la previsione di efficaci strumenti di controllo onde prevenire comportamenti opportunistici sono vitali per il radicamento sociale di un istituto consimile. Tuttavia, la retorica del lazy poor non ha fondamento empirico e non aiuta in alcun modo il Paese a progredire da un punto di vista economico o sociale.

La seconda considerazione concerne la penuria di lavoratori poco qualificati che il dibattito sul Reddito di cittadinanza ha messo in luce. A differenza delle sperimentazioni statunitensi, l’istituto italiano è accompagnato da precisi oneri per il percettore quanto alla ricerca e all’accettazione di un’offerta lavorativa. Ciò nonostante, come nell’esempio statunitense, questo tipo di sostegno reddituale – almeno laddove si aggiunga al novero dei consumi pubblici e ai normali servizi del Welfare State – ha quale esito e, si crede, quale finalità specifica, quella di permettere al cittadino di esercitare con la dovuta autonomia il proprio diritto-dovere al lavoro: non già di svolgere un’occupazione purchessia, al fine di sbarcare il lunario, ma di impegnarsi in un’attività grazie alla quale possa contribuire al progresso materiale e spirituale della comunità, partecipando effettivamente all'organizzazione economica e sociale del Paese.

Certo, questa autonomia non può che incidere negativamente sulla competitività di quelle imprese che riescono a operare solo grazie alla massima erosione del monte salari. Ma, a ben vedere, anche questo esito non può essere seriamente considerato negativo. Al contrario l’autonomia di cui si discute – considerate anche le sue inevitabili conseguenze – dovrebbe essere salutata con favore da tutti, in una Repubblica democratica e fondata sul lavoro.