“In questi giorni, mentre il primo satellite artificiale lanciato nell’Urss sta girando sopra la nostra testa a novecento chilometri di altezza, i governanti italiani stano discutendo se sia il caso di stanziare i fondi per pagare gli stipendi ad un numero di professori e incaricati pari a quello dello scorso anno accademico. Si direbbe che i nostri governanti vivano ancora nel mondo delle carrozze invece che in quello dei missili”.

Così scriveva nel 1958, in uno dei suoi editoriali per «Il Giorno», Adriano Buzzati Traverso. Senza il riferimento all’Unione Sovietica e al lancio dello Sputnik le critiche che il genetista sottintendeva, sorte dalla possibilità di paragonare il caso italiano con le migliori pratiche internazionali sperimentate durante i suoi soggiorni statunitensi, potrebbero apparire rivolte alle politiche relative al personale docente dei nostri atenei messe a punto in anni ben più recenti. Rigidità nel controllo centrale delle risorse messe a disposizione, staticità negli organici e autoreferenzialità nella «riproduzione» dei settori disciplinari anche di fronte a domande sociali di segno opposto sono elementi che caratterizzano nel lungo periodo la gestione degli ingressi in ruolo dei professori universitari, e che sono sopravvissuti agli interventi di riforma complessiva del settore, spesso giustificati di fronte all’opinione pubblica proprio dalla necessità di rivedere in profondità criteri e ritmi di selezione del personale. Comprendere le radici del problema con uno sguardo di lungo periodo può essere il punto di partenza per una diagnosi più corretta delle criticità e, forse, per una prognosi più efficace di quelle succedutesi nell’ultimo trentennio.

Esprimendo la sua lamentela, Buzzati si riferiva a una normativa per la selezione e la definizione professionale del ruolo dei docenti universitari effettivamente datata. Basata sulla pratica del concorso a cattedre regolata dagli articoli 57 ss. della legge Casati del novembre 1859, e divenuta procedura standard intorno al 1875 come momento d’incontro e compromesso tra l’amministrazione centrale e la rete delle sedi locali, essa era stata via via adattata a un ruolo più autonomo e decisivo della comunità scientifica di settore nella composizione e nell’attività della commissione giudicatrice. Il ruolo fondamentale attorno a cui ruotava la vita universitaria era comunque quello del professore, che dalla cattedra permetteva la gestione individuale dell’attività di ricerca e la suddivisione dei compiti d’insegnamento in «corsi liberi» e assistenze attraverso l’istituto collegato. Le altre posizioni non godevano infatti di altrettanta stabilità né di pressoché alcuna autonomia.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 1/17, pp. 135-144, è acquistabile qui]