La biografia di Anis Amri, l’autore della strage di Berlino, pone il problema del fallimento dei sistemi di intelligence nei confronti di una persona sorvegliata perché già colpevole di vari reati. E, a maggior ragione, di quanto sia difficile prevenire gli attentati di potenziali terroristi non ancora identificati. Il carattere molecolare degli attentatori, l’ubiquità degli obiettivi e la natura multiforme degli attentati rendono estremamente difficile il processo previsivo anche per le agenzie di intelligence più ricche di «immaginazione». Gli obiettivi e le modalità degli attentati variano frequentemente, producendo una rincorsa tra attentatori e intelligence che vede quest’ultima decisamente in affanno.

Se vogliamo continuare a vivere in uno Stato democratico che non rinuncia a troppe libertà per garantire la sicurezza, bisogna accettare l’idea dell’esistenza di un rischio residuale legato all’imprevedibilità della violenza terroristica. Il che ovviamente non toglie che sia comunque necessario pensare a come ridurre al minimo tale rischio.

Dopo ogni attacco terroristico, accanto al dolore e allo sgomento, compare ritualmente la lamentela nei confronti dell’inefficienza dei sistemi di prevenzione e controllo. Si denunciano le carenze nella raccolta di informazioni e nella loro interpretazione, come pure nel coordinamento e nella cooperazione tra le varie agenzie di intelligence. Si propone allora un potenziamento delle capacità analitiche dell’intelligence e un migliore coordinamento a livello locale, nazionale e internazionale tra le varie organizzazioni addette alla sicurezza. Ma il problema sta proprio qui. Bisogna chiedersi perché sia così difficile prevedere simili eventi e perché il coordinamento continui a essere alquanto problematico. Un affinamento nella raccolta di informazioni, nelle analisi di big data su fonti aperte e nel dark e deep web, nelle intercettazioni telefoniche e ambientali può senz’altro essere d’aiuto per un miglioramento delle capacità previsive. È altrettanto probabile, però, che se si potesse sapere con precisione come sono stati sventati alcuni attentati (informazioni che raramente vengono fornite per ragioni di sicurezza), scopriremmo che la delazione da parte di cittadini, terroristi pentiti o arrestati, costituisce la variabile che fa la differenza ai fini della prevenzione.

Un miglioramento nel coordinamento tra le varie agenzie richiede invece un ripensamento delle strutture organizzative dei sistemi di sicurezza al centro e alla periferia, in grado di ridurre al minimo necessario le aree del segreto e delle «gelosie informative». Compito non facile che richiede il superamento di culture organizzative molto diversificate tra loro a livello locale, nazionale e internazionale. Al fondo di queste proposte relative alla raccolta e interpretazione delle informazione e alle riforme organizzative c’è il problema di come possa maturare la fiducia tra gli apparati di sicurezza e tra questi e i cittadini.

Il neo-ministro dell’Interno Minniti ha sollecitato una maggiore decentralizzazione, attribuendo a sindaci, polizia locale, questori e prefetti più poteri sul fronte della prevenzione. Una prevenzione che ha definito «collaborativa». È una scommessa forte rivolta ad apparati locali spesso altamente compartimentalizzati che va appunto nella direzione della costruzione della fiducia reciproca. Si tratta però di una risposta ancora insufficiente. La raccolta di informazioni rilevanti, quelle appunto che, come detto, fanno la differenza ai fini della prevenzione non può prescindere dalla collaborazione dei cittadini. Bisogna riuscire a costruire un sistema di sicurezza «partecipata», coinvolgendo maggiormante la cittadinanza sui temi della sicurezza. Anche in questo caso si pone un problema fiduciario. Cosa si può fare per avvicinare maggiormente il cittadino agli apparati di sicurezza, non accontentandosi dei generici atteggiamenti di fiducia espressi dalla popolazione verso le forze dell’ordine? Anzitutto è necessario favorire sistematiche azioni di scambio informativo e conoscitivo a livello comunitario tra apparati di sicurezza e popolazione in grado di stimolare conoscenza e fiducia reciproca. Anche la riduzione ai minimi termini delle aree di segretezza e una regolazione puntigliosa dei loro contenuti e della loro durata temporale possono contribuire alla percezione del segreto istituzionale, necessario a garantire la sicurezza, come una realtà non minacciosa per il cittadino e costituire una base su cui costruire la fiducia. Infine, la fiducia della popolazione può essere ulteriormente accresciuta dall’istituzione di efficaci sistemi di controllo democratici sulle agenzie addette alla sicurezza che incentivino la loro responsabilizzazione, impedendo abusi e pratiche illegali. Sappiamo che questi sistemi di controllo incontrano pesanti limiti, non foss’altro che per l’asimmetria informativa di fondo esistente tra i controllori e i controllati. Tutto ciò non deve però scoraggiarci dalla ricerca di sistemi di supervisione sempre più incisivi.

 

[Sui temi della sicurezza e della prevenzione, dello stesso autore è in preparazione un articolo che uscirà sul numero 1/2017]