Molti di noi sono risentiti verso l’Uem (Unione economica e monetaria), a causa dell’austerità che ci ha imposto. Allo scoppio della pandemia ci siamo trovati indeboliti di risorse umane, scientifiche e materiali. Non dovremmo lasciare che in futuro il Patto di stabilità e sviluppo ci impedisca di compiere gli investimenti pubblici di cui abbiamo bisogno. Queste sono ormai opinioni largamente condivise, anche da persone che non ne traggono le conseguenze dei «sovranisti». L’uscita dall’euro permettendoci di riacquistare la sovranità monetaria ci consentirebbe il finanziamento monetario di ogni deficit pubblico senza più doverci preoccupare delle imposte, rese obsolete ed inutili: un mondo fantastico l’entrata nel quale sarebbe festeggiata da una nuova raffica di mega-condoni, tributari, contributivi, urbanistici e ambientali. Una vera cuccagna.

Un primo paradosso del debito è che da un lato siamo stati e tuttora siamo affamati di deficit pubblico, dall’altro abbiamo accumulato un debito imbarazzante e paralizzante. Noi abbiamo bisogno di essere soccorsi perché la nostra posizione sul mercato dei titoli pubblici è più debole degli altri Paesi. Alcuni pensano che abbiamo bisogno non di prestiti ma di liberazione dall’indebitamento, con dei puri trasferimenti dal resto del mondo. Come che sia, in forza dell’essere ritenuti almeno da alcuni vicini all’insolvenza, chiediamo al resto dell’Europa dei sussidi.

Il secondo paradosso segue dai nostri propositi: alla ripresa, con un Pil ipotetico pari a quello del 2019, ci ritroveremmo con un rapporto debito/Pil di oltre il 150% e vorremmo essere liberi di spendere per il nostro stato sociale molto più di prima, ma come faremo? Una semplice via per il consolidamento dello stato sociale c’è: molte più tasse in permanenza e/o fine della tolleranza per l’evasione fiscale. Potremmo benissimo arrivare a una spesa pubblica complessiva del 55% o 60% del Pil. Un Paese che usa le sue risorse principalmente per soddisfare i bisogni collettivi della sua popolazione risolve anche, in parte, l’esigenza di una maggior equità distributiva e mobilità sociale. Bisognerebbe allora accettare di incanalare nel gettito fiscale tali percentuali del Pil. E starà alla scienza delle finanze trovare il regime fiscale meno incompatibile con l’incentivazione alla produzione e all’investimento.

Il terzo paradosso è che il nostro debito è solo in piccola parte verso l’estero. Del resto abbiamo da parecchi anni un avanzo nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Cediamo all’estero un maggior valore di beni e servizi di quanto ne assorbiamo dall’estero. Dunque non è affatto vero che «viviamo al di sopra dei nostri mezzi». Quando l’allora ministro Paolo Savona lo scoprì, fu per lui come un’improvvisa illuminazione, e ne informò subito la Signora Merkel, ligia all’economia domestica della «massaia sveva», al cui esempio avrebbe dovuto attenersi anche l’Italia.

In realtà ci sono nella contabilità di un Paese due saldi, quello con l’estero e quello tra settore privato e settore pubblico. Che rapporto c’è tra questi due saldi? Secondo alcuni, si tratterebbe di «deficit gemelli». Gemelli però disuguali. Sarebbe il deficit pubblico a esercitare un’influenza causale sull’altro. Ma l’Italia degli ultimi 10 anni smentisce questa supposta regolarità empirica. Dove Savona non riuscì a convincere nessuno fu quando sembrò suggerire che fosse possibile trasferire risorse dall’avanzo delle partite correnti al deficit pubblico. Questo con i normali strumenti della politica economica non si può fare. Allo stesso modo un Paese può essere stato per anni in avanzo con le sue partite correnti e risultare insolvente. Infatti questo dipende dalla sua posizione nel mercato internazionale dei titoli pubblici, dove deve in primo luogo sembrare solvente. E lo sembrerà se riuscirà a soddisfare tre condizioni: 1) se il suo Pil sta crescendo; 2) se gli interessi sul debito non assorbono gran parte del gettito; 3) se si dimostra capace e determinato a raccogliere le imposte dovute. Il nostro Paese è in grave difficoltà rispetto alla prima (il Pil è in ristagno ormai da più di vent’anni); in una certa difficoltà rispetto alla seconda (l’allora Commissario europeo Pierre Moscovici fece notare che i pagamenti di interessi dell’Italia eccedevano la sua spesa per l’istruzione pubblica); in una posizione imbarazzante per la terza, a causa dei continui condoni e della legislazione che in alcuni casi premia l’evasione.

Dunque il deficit pubblico cronico, e il conseguente accumularsi del debito, sono l’effetto di una qualche congiunzione esclusivamente domestica: quale? In prima approssimazione non c’è equilibrio tra le reciproche prestazioni. Il settore privato (imprese e famiglie) ottiene dal pubblico beni e servizi per un valore maggiore di quello che esborsa. Naturalmente le transazioni tra i soggetti appartenenti ai due settori sono in gran parte non di mercato. Ma gli enti che costituiscono il settore pubblico possono far fronte ai loro costi con la tassazione. A rigore, secondo la concezione keynesiana la variazione nel deficit del bilancio pubblico dovrebbe essere anti-ciclica, in modo da fungere da stabilizzatore automatico. Lungo un intero ciclo, il bilancio in media dovrebbe essere in pareggio. E persino un vecchio e un nuovo articolo della nostra Costituzione così vorrebbero. Ma così non è stato dai governi di Berlusconi in poi. Il settore privato ha vissuto in un confortevole stato di parassitismo nei confronti del pubblico, accumulando una rilevantissima ricchezza privata. In un suo recente articolo Pierluigi Ciocca ci ricorda che «La categoria “famiglie” […] possedeva alla fine del 2017 un patrimonio netto di 9,7 trilioni di euro […], pari a quasi quattro volte il debito pubblico […] in rapporto al reddito disponibile (8:1) una tale ricchezza resta la più elevata fra i paesi del Gruppo dei 7». Questa sconcertante congiunzione, che è notoria e certo non incoraggia i cittadini degli altri Paesi europei a «soccorrerci», è fisiologica o patologica?

Alcuni pensavano che l’abbondante disponibilità di titoli pubblici con un rendimento sicuro fosse una buona occasione di risparmio per le famiglie. Ma ora il loro rendimento non è più sicuro, ed è specialmente rischioso che le nostre banche si siano riempite di titoli pubblici, un caso oltretutto di doppia intermediazione che consente alle banche di non fare il loro lavoro: il credito alle imprese. La congiunzione è diventata patologica.

Passiamo ora ai rapporti tra l’Italia e l’Unione europea. L’Italia ne è stata almeno dal 2010 un membro infelice, sempre in difficoltà ad osservare il Patto di stabilità e di sviluppo. In occasione della crisi del Coronavirus, io mi sarei rivolto per avere un grosso prestito al Fondo monetario internazionale, non all’Uem. Perché il Fmi ha l’esperienza, le competenze, la capacità, da un lato. Dall’altro non vedevo, come dichiarato anche dalla Corte costituzionale tedesca, il titolo a fare una richiesta di soccorso alla Uem, che, stando a Maastricht, non è uno Stato federale, ma un’unione di stati che cooperano competendo su mercati il più possibile concorrenziali, in condizioni di stabilità monetaria. Inoltre non ha verso i cittadini europei il dovere di un’assistenza di ultima istanza. Tanto è vero che non è uno Stato e che non è neppure un’unione fiscale. È una struttura fragile e pericolante, alla quale l’Italia avrebbe fatto meglio a non aderire, restando, come alcuni Paesi saggiamente hanno fatto, nell’Unione economica.

Ma sembra essersi formato in Europa un consenso sul fatto che l’obbligo di assistenza di ultima istanza tra i Paesi dell’Uem esista. Per renderci conto di come l’atteggiamento tedesco sia mutato, basta ricordare che nel suo articolo sul «Corriere» Mario Monti dopo aver raccontato che Angela Merkel gli aveva confidato che con lei al governo mai vi sarebbero state emissioni di Eurobond, ipotizzava che tali emissioni fossero ormai in alternativa al mantenimento della Bce nei limiti del suo Statuto: stava alla Merkel solo di scegliere tra le due alternative. In realtà, la Bce è andata e sta andando ben oltre, come la Corte costituzionale tedesca ha segnalato con allarme; e, se la proposta della signora von Der Leyen verrà approvata, avremo anche una variante di Eurobond. Non solo. La proposta della Commissione non è improvvisata. Ha una rilevante portata di innovazione dell’architettura istituzionale dell’Uem, configurando, come è stato notato da Mario Monti nel suo percettivo articolo «Il piano europeo e i benefici per l’Italia» sul «Corriere» (un assoluto must per gli europeisti), un abbozzo di unione fiscale.