L’avvio della procedura di fallimento della città di Detroit non ha suscitato in Italia particolare interesse, a parte qualche consueto e acido commento del “Corriere della Sera” (21 luglio) sulla circostanza che una simile procedura dovrebbe essere applicata anche a Napoli. E invece quella di Detroit, a parte l’interesse in sé, è una metafora straordinaria di due interessanti temi nelle società contemporanee: le conseguenze del liberismo estremo; le mutevoli e differenti sorti dei ricchi e dei poveri.
La causa prima del fallimento di Detroit, al netto di episodi di malgoverno e di malaffare che non sono certo limitati a quella esperienza, è nell’effetto delle migrazioni come soluzione ai problemi di disparità geografica nello sviluppo. Detroit è il caso estremo, avendo perso due terzi della sua popolazione: ma casi comunque preoccupanti, ci sono anche in Europa e in Italia. Da tempo molti economisti e istituzioni prestigiose come la Banca Mondiale (si veda ad esempio il World Development Report del 2009, “Reshaping economic geography” ) sostengono che le migrazioni sono la migliore soluzione ai problemi di disparità: ciò che conta è offrire lavoro alle persone, indipendentemente dai luoghi.
Un economista autorevole nel dibattito europeo come Daniel Gros, ha recentemente riproposto migrazioni di massa, specie dei giovani qualificati come soluzione alla disoccupazione nei paesi del Sud Europa (Ceps Policy Brief del 26 giugno). Poi arriva Detroit. E ci ricorda la differenza fra l’economia dei teorici astratti e un po’ dogmatici e quella delle persone in carne e ossa. Che succede, infatti, ai luoghi dai quali fuoriescono in massa le persone più qualificate in cerca di lavoro? Questi luoghi muoiono, perché i residenti, il loro reddito e il loro gettito fiscale non sono più in grado di sostenere neanche i minimi servizi indispensabili, e ancor meno far fronte a servizi giustamente progettati su una scala molto più ampia. Non è difficile argomentare che il costo collettivo di un luogo che “muore” è assai superiore al beneficio privato di chi è emigrato: si pensi all’enorme spreco di infrastrutturazione pubblica, ma anche ai valori immateriali. Quando discutiamo delle politiche economiche è sempre bene chiarire quali costi e quali benefici, collettivi e privati, consideriamo.
Naturalmente, e questa è la seconda considerazione, dipende anche da chi sopporta quali costi. La popolazione rimasta a Detroit è prevalentemente povera (e di colore), meno in grado di migrare; i ricchi che continuano a lavorare nelle aziende della città (fra cui la rilanciata Chrysler), semplicemente si spostano in sobborghi verdi e dalle finanze pubbliche sane. I costi del fallimento – a quanto si può capire – saranno massicciamente sopportati dagli attuali cittadini di Detroit, in termini di servizi collettivi assai minori in qualità e quantità; in particolare da coloro che lavorano per l’amministrazione comunale (a cominciare da poliziotti, pompieri, insegnanti) o vi hanno lavorato per una vita e oggi sono in pensione. Il costo collettivo diventa anche costo privato. Ma colpisce i più poveri, i dipendenti pubblici, i pensionati. Può cancellare con un colpo di spugna i trattamenti pensionistici guadagnati in una vita di lavoro, senza che ciò appaia drammaticamente ingiusto. Dagli Stati Uniti ci viene una interessante, e assai preoccupante, lezione: le grandi istituzioni finanziarie sono troppo grandi per fallire, e soprattutto i loro azionisti e manager sono troppo ricchi e troppo forti per essere colpiti (come ci ricorda Joseph Stiglitz nel suo ultimo bellissimo libro “il prezzo della disuguaglianza”); le città possono fallire, perché i loro – residui - cittadini non sono né ricchi né forti. La tanto glorificata “mano invisibile” del mercato, non è uguale per tutti: è assai tenue quando si tratta di accarezzare i forti, e diviene imperiosa quando si tratta di colpire i deboli.