Il 2016 sui mercati finanziari non è iniziato nel migliore dei modi. Gli indici azionari statunitensi hanno fatto registrare la peggiore performance di sempre nei primi giorni dell’anno, trainati al ribasso dalle borse asiatiche (specialmente quella cinese). Peraltro, l’ondata di vendite non ha risparmiato le borse europee e, fra queste, quella italiana è stata fra le più duramente colpite. Al di là dei mercati azionari, che attirano maggiormente l’attenzione del grande pubblico, movimenti significativi si sono visti anche sulle obbligazioni e sulle valute, mentre ingenti flussi di danaro si sono mossi in uscita dai mercati cosiddetti emergenti.

Le cause di questo scompiglio sono molteplici: fra le principali, il rallentamento della crescita cinese e la conseguente svalutazione dello yuan, il collasso del prezzo del petrolio, che da un canto sembra indicare un raffreddamento della crescita globale e dall’altro sta mettendo in serie difficoltà sia i Paesi produttori sia le compagnie petrolifere, le cui obbligazioni sono detenute da banche e fondi. Infine, la scelta della Federal Reserve di rialzare, seppur di poco, i tassi di interesse, che è parsa a molti intempestiva, visto che i dati economici statunitensi restituiscono un quadro in chiaroscuro, caratterizzato da una significativa contrazione del tasso di crescita in una fase, peraltro, di rafforzamento del dollaro.

Nel frattempo, l’Eurozona mostra segni allarmanti di deflazione, nonostante le misure non convenzionali adottate dalla Bce. Neppure il quadro geopolitico contribuisce a rasserenare gli animi: forti tensioni attraversano il Medioriente, il Centro e il Nord Africa, come pure gli Stati confinanti con la Russia, dalle Repubbliche Baltiche, alla Moldavia al Caucaso; mentre in Estremo Oriente le mire cinesi sulle isole del Mar Cinese Meridionale e i test nucleari nordcoreani suscitano allarme e preoccupazione.

Va detto che ogni paragone con la crisi del 2008 è fuorviante: allora la diffusione di prodotti strutturati costruiti su debiti divenuti inesigibili aveva avvelenato i bilanci di banche e istituti finanziari. Oggi assistiamo invece a una pluralità di fattori di rischio – sommariamente elencati più sopra – che si manifestano all’interno di un quadro politico-economico particolarmente fragile. Per almeno due ragioni: da un canto le politiche accomodanti delle banche centrali hanno drasticamente ridotto il costo del credito, aumentando di conseguenza la propensione al rischio, sia esso sovrano o corporate. Da più parti, infatti, si ritiene che le obbligazioni siano in una fase di bolla, come dimostrano le quotazioni troppo elevate di molti junk bonds, e il rendimento vicino a zero quando non negativo – se aggiustato per l’inflazione – del bund tedesco. D’altra parte, le banche centrali, in particolare Fed e Bce, si trovano a questo punto pressoché sprovviste di munizioni e in caso di recessione avrebbero ben pochi strumenti di contrasto.

Il quadro, dunque, è piuttosto fosco. In tutto ciò, la situazione italiana desta particolari preoccupazioni. Se è vero che il costo del debito pubblico è tutto sommato contenuto, grazie all’intervento della Banca centrale europea, non è da escludere che esso possa comunque innalzarsi, eventualmente anche a seguito di liquidazioni da parte dei fondi esteri che per rosicchiare magri rendimenti si sono riempiti di obbligazioni italiane e spagnole, oltre che di obbligazioni societarie con basso rating. Inoltre, il debito pubblico non sta diminuendo, il che potrebbe anche essere comprensibile in una fase di decrescita o di crescita anemica quale è quella attuale.

Ciò che invece è poco comprensibile è l’adozione da parte del governo italiano di politiche che si stenta a definire keynesiane e che assomigliano, piuttosto, a elargizioni neppure equamente distribuite; mentre si faticano a individuare linee chiare e coerenti di politica economica, fiscale e industriale. Anche per questa ragione, gli sviluppi degli ultimi giorni mi paiono particolarmente allarmanti: il recente bail in delle quattro banche vicine all’insolvenza, che si è svolto secondo le nuove regole che prevedono il coinvolgimento di azionisti, creditori e correntisti sopra i 100.000 euro, ha contribuito a sollevare preoccupazioni sullo stato di salute di tutto il sistema bancario, afflitto da un ammontare elevato di sofferenze o «incagli» capace di generare perdite le cui dimensioni non sono chiare, poiché nessuno conosce l’effettivo valore (mark to market) dei non performing loans; la pioggia di vendite che ha colpito Montepaschi, sia nelle azioni sia nelle obbligazioni, deriva da qui. Con il risultato che la banca non solo ha «bruciato» l’ennesimo aumento di capitale, ma è ora esposta a due rischi: la difficoltà di rifinanziarsi sul mercato del credito se non a costi elevati e il probabile incremento dei deflussi dai conti correnti, con il conseguente rischio di una crisi di liquidità.

Al di là degli attesi rimbalzi del mercato e di movimenti più o meno erratici, si tratta di una situazione molto delicata e che non deve essere sottovalutata poiché potrebbe coinvolgere altri istituti di credito. Per questa ragione sono opportuni interventi rapidi, decisi e soprattutto ben ponderati, se si vogliono evitare pesanti conseguenze sui cittadini e sulle imprese, già provati da anni di scarsa circolazione del credito.

Tanto meno è opportuno, per mere finalità di politica interna, fomentare un clima di scontro con le istituzioni europee: è ragionevole fare tutto il possibile perché l’Ue rifletta sull’efficacia delle politiche economiche adottate negli ultimi anni. Perché tale riflessione si avvii, occorrono perizia, esperienza e prudenza: doti che il governo italiano pare sottovalutare a favore di un certo qual bombastico ottimismo. È ora di tornare a fare politica, nel suo senso più pieno, prima che la fase di relativa tranquillità della quale abbiamo potuto godere negli ultimi mesi si avvii all’inevitabile conclusione.