Il governo ha recentemente avallato la vendita all’Egitto di due fregate della Fincantieri, senza che alcun ministro sollevasse riserve. I partiti della maggioranza sono stati accusati di incoerenza, perché in precedenza avevano invocato durezza col regime egiziano in risposta al suo comportamento sull’assassinio di Giulio Regeni. Trovo la critica malposta.

Il 28 giugno 1914 a Sarajevo un serbo-bosniaco uccise l’erede al trono di Vienna, che accusò la Serbia, plausibilmente, e pretese giustizia. Il suo lungo ultimatum chiedeva anche di partecipare alla ricerca dei mandanti. Il rifiuto di Belgrado sciolse le briglie alle cause profonde della guerra civile europea, che durerà un trentennio.

Giulio Regeni fu torturato e ucciso al Cairo all’inizio del 2016, mentre conduceva ricerche sui sindacati indipendenti egiziani. L’Italia chiese giustizia e cooperazione giudiziaria. Ottenne spiegazioni implausibili e cooperazione risibile ma infine si piegò. La capitolazione fu suggellata dal rientro dell’ambasciatore al Cairo, nell’estate del 2017.

Fu una scelta moralmente inaccettabile e politicamente deleteria. Segnalò a simili regimi che l’Italia è uno Stato i cui cittadini si possono torturare e uccidere impunemente. E segnalò agli altri governi che quello italiano è disposto a rinunciare ai propri interessi primari anche quando, come in questo caso, i rapporti di forza non lo impongono. Esisteva una via di mezzo tra questo e una guerra? Presumo di si.

La premessa è ovvia: non c’è giustizia nelle relazioni internazionali, quantomeno non nel senso usuale. È vero che esistono dottrine secondo le quali quell’ideale deve essere, e spesso è, una motivazione delle azioni degli Stati: ma solo governi che abbiano i mezzi per pretendere giustizia sono in grado di ottenerla, agendo unilateralmente o in fori come il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. In questa sfera, la giustizia è intrinsecamente selettiva e talvolta dipende dalla minaccia o dall’uso della forza. Si pensi al caso che fondò la moderna teoria dell’intervento umanitario, figlia di quelle dottrine: i novantasei giorni di bombardamenti aerei sulla Serbia, nella primavera del 1999, da diecimila metri di altezza (fu la prima guerra nella storia nella quale una delle due parti non ebbe neppure un caduto).

Questa via era impossibile, oltre che indesiderabile, perché che l’Egitto condivide con l’Italia un alleato potente, gli Stati Uniti, che già nel 2016 sosteneva apertamente il regime militare. L’Italia poteva solo chiedere giustizia, non imporla.

Vediamo allora gli interessi contrapposti. E per farlo assumiamo che la responsabilità dell’omicidio sia ascrivibile, in ultima istanza, al regime: se così non fosse l’intera vicenda sarebbe priva di senso, perché entrambe le parti avrebbero interesse a trovare i colpevoli.

Dal lato italiano almeno due interessi si aggiungevano alla necessità di avere giustizia. Il primo è la sicurezza dei cittadini che svolgono lavori delicati in paesi retti da regimi repressivi: ottenendo giustizia Roma avrebbe segnalato a essi che simili azioni comportano conseguenze. Il secondo è più impalpabile ma non meno importante: la credibilità del paese, che avrebbe sofferto se, dopo essere stata pretesa, giustizia non fosse stata fatta. Questi due interessi si differenziavano però da quello primario perché entrambi sarebbero stati soddisfatti anche da un’apparenza di giustizia: scuse, risarcimenti, e la condanna di un colpevole magari immaginario ma plausibile.

Gli interessi del regime egiziano erano opposti. Il primo è l’ovvia ritrosia ad ammettere la propria responsabilità – di comando, se non diretta – per l’omicidio e le torture, che avrebbe nociuto alla sua immagine e, di riflesso, alla disponibilità delle democrazie occidentali di sostenerlo apertamente, che è un elemento cruciale della sua stabilità. Il secondo interesse deriva dalla logica interna di un regime repressivo, che s’indebolisce quando punisce gli autori dei crimini che esso stesso aveva chiesto, ispirato, o autorizzato, anche solo tacitamente. Come nel caso delle relazioni interne alla mafia, anche qui la fiducia reciproca è cruciale: se anche i diretti responsabili dell’omicidio di Regeni fossero stati agenti di basso rango, punirli avrebbe segnalato all’intero apparato repressivo che la garanzia d’impunità offerta dal regime non è assoluta, rendendolo meno affidabile. Neppure trovare un capro espiatorio sarebbe stato semplice per il regime.

La soluzione indicata sopra – un’apparenza di giustizia – avrebbe soddisfatto gli interessi contrapposti. La condanna di plausibili colpevoli, magari accompagnata dalla precisazione che avevano agito autonomamente o eccedendo gli ordini; delle scuse, ridimensionate dalla medesima precisazione; e un risarcimento morale e materiale alla famiglia, motivato dalla responsabilità di comando. Il danno interno ed esterno per il regime sarebbe presumibilmente stato inferiore al danno derivante da un raffreddamento delle relazioni con l’Italia (e, di riflesso, con l’Unione europea), che poteva essere credibilmente minacciato.

Disgraziatamente allora ministro degli esteri era Angelino Alfano, ossia il responsabile politico, da ministro dell’Interno, della consegna di una bambina e di sua madre a un altro regime repressivo, il Kazakhstan (il caso Shalabayeva, del 2013). Nel calcolare costi e benefici di ogni opzione, verosimilmente il regime egiziano tenne conto di quello scandalo, del fatto che Alfano non subì serie conseguenze, e di ciò che tutto questo attestava quanto alla scala di priorità del governo italiano. Ma sebbene sia possibile che Alfano sia stato sviato anche da considerazioni opportunistiche – gli affari ai quali ora si dedica riguardano anche l’Egitto, apparentemente, e su essi collabora con un ex ministro del regime – la débâcle investe la responsabilità dell’intero governo di allora. E indirettamente anche quelli precedenti.

Infatti un altro elemento del quale il regime egiziano probabilmente tenne conto è il caso di Abu Omar, imam egiziano rapito a Milano nel 2003 dalla Cia per consegnarlo ai torturatori del Cairo, nell’ambito della cosiddetta «war on terror». I giudici italiani condannarono ventitré agenti della Cia, per sequestro di persona. Ma i presidenti Napolitano e Mattarella ne graziarono tre o quattro e Roma non spinse le richieste di estradizione degli altri. Il potere negoziale degli Stati Uniti è incomparabile a quello dell’Egitto. Nondimeno questo caso suggerì al regime militare che la classe politica italiana è in grado di digerire anche gravi umiliazioni esterne senza subire altrettanto gravi ripercussioni interne. Ciò indebolì l’Italia, perché la forza negoziale di un governo risiede anche nella capacità di usare credibilmente questo argomento: «capisco che voi non vogliate darmi ciò che chiedo, ma io non posso tornare a casa a mani vuote».

La capitolazione italiana fu dunque il risultato delle debolezze interne ed esterne del governo italiano, e non fu né inevitabile né vantaggiosa. In particolare, nessuna ragione di realpolitik può giustificarla. Si è parlato anche del contratto dell’Eni per il gas di Zohr, per esempio, ma è vero il contrario: uno stato i cui cittadini si possono uccidere impunemente non è neppure in grado di tutelare stabilmente gli interessi delle proprie imprese.

La questione delle fregate sorge tre anni dopo che il caso Regeni è stato chiuso, e ha suscitato pochi commenti proprio perché è coperta dal cono d’ombra di quella resa. È tardi per simili ritorsioni. Questa sarebbe stata lieve, peraltro, perché anche altri producono navi militari, e non avrebbe avuto alcuna utilità se fosse stata decisa isolatamente, al di fuori di una nuova iniziativa politica.

Voglio dire che il governo italiano dovrebbe – e credo potrebbe – riaprire la questione col regime egiziano, come avvenne col Kazakhstan (madre e bambina tornarono in Italia e ricevettero lo status di rifugiate). Ossia dovrebbe riaprire il negoziato col regime, per ottenere una soluzione che renda quantomeno omaggio alla necessità di fare giustizia, rimedi alle conseguenze dell’ingiustizia, e riduca il pregiudizio sofferto dagli altri interessi nazionali coinvolti.

Di nuovo, tuttavia, rifiutare ex abrupto le fregate non sarebbe forse stato il modo migliore per avviare il negoziato. Piuttosto, criticherei Pd e 5 Stelle per non avere sinora spinto il governo a riaprire il caso Regeni. Mentre scrivevo questo pezzo il Pd ha iniziato a farlo, tramite il suo segretario, e questo è incoraggiante.