Nel corso della vita, capita talvolta di imbattersi in figure così complesse e intense da rendere riduttivo qualunque tentativo di evocarne pienamente i contorni. È questo il caso di Franco Rositi la cui morte, avvenuta il 20 agosto 2022, ha privato la comunità sociologica italiana di una delle personalità più sfaccettate e innovative degli ultimi cinquant’anni.

Franco Rositi è sempre stato fedele a un’idea di libertà intellettuale che lo ha portato a compiere scelte difficili, talvolta «scomode», ma sempre coerenti con la sua tensione conoscitiva e la sua passione civile. Il suo era un modo di concepire il rapporto con la cultura e la realtà sociale, maturato sin dagli anni Sessanta, grazie agli insegnamenti di Francesco Alberoni, uno dei suoi «maestri», al quale doveva anche l’incontro con la sociologia. Veniva da una formazione classica, iniziata al liceo di Chieti, in quella terra d’Abruzzo a cui è rimasto sempre legato da profonde radici, che evocava spesso e a cui tornava non appena possibile. In Lettere classiche era anche il corso di studi frequentato all’Università Cattolica, dove si è laureato con una tesi di storia del teatro. Agli studi sociologici Rositi diceva di essere approdato quasi per caso, quando è entrato in contatto «fortunosamente» con l’Istituto di Sociologia di Alberoni. Qui ha iniziato lo studio dei maestri del pensiero sociologico come allievo di un corso post-laurea per proseguire come ricercatore dell’Istituto Gemelli-Musatti, diretto dallo stesso Alberoni.

Di quel periodo, Rositi ricordava in particolare il primo incontro con le opere di Durkheim: un autore che egli definiva una «rivelazione» per la brillantezza delle sue intuizioni, le sue preoccupazioni per l’individualismo crescente della modernità, il suo pensiero lontano dalla sterile astrattezza di gran parte del dibattito politico-culturale del tempo. Queste letture hanno trovato un terreno fertile nella tensione del giovane Rositi alla ricerca di referenti teorici che gli consentissero di coniugare la passione culturale con l’impegno politico. Era un impegno iniziato negli anni del liceo, affinato all’università e mantenuto per tutta la vita, in forme che si sono venute precisando anche grazie alla frequentazione degli ambienti culturali milanesi di area progressista, dopo l’inizio della carriera accademica presso la nascente Facoltà di Scienze Politiche dell’Università statale.

I problemi dell’individualismo e della degenerazione del dibattito politico hanno guidato la sua attenzione verso gli interrogativi iniziali sulla formazione dell’opinione pubblica

Nella ricca produzione di scritti che Rositi ci ha lasciato l’impatto di questo particolare incontro con la sociologia è rimasto come una sorta di filo rosso, rintracciabile in alcuni temi e preoccupazioni ricorrenti. In particolare, i problemi dell’individualismo e della degenerazione del dibattito politico hanno guidato la sua attenzione verso gli interrogativi iniziali sulla formazione dell’opinione pubblica e le logiche dell’azione politica nelle società dominate dalla cultura di massa per giungere, negli anni Settanta e Ottanta, a ricerche innovative sull’industria culturale.

Nonostante l’importanza di queste ricerche, sarebbe improprio definire Franco Rositi come un sociologo dei mass media. In realtà, la sua attenzione per l’industria culturale si inseriva in una linea di pensiero orientata da questioni complesse di teoria sociale, quali il rapporto fra pubblico e privato e la critica «non astratta» all’ideologia che negli ultimi anni intendeva riprendere e approfondire. Rositi è stato inoltre una figura di spicco nel campo della metodologia della ricerca, non solo con le sue pubblicazioni, ma anche come promotore di iniziative finalizzate alla valorizzazione di questo ambito disciplinare, quali l’impulso che egli ha dato alla sezione Metodologie dell’Associazione Italiana di Sociologia (Ais) e la fondazione della collana Metodologia delle scienze sociali, diretta da Alberto Marradi.

Franco Rositi non solo non è etichettabile unicamente come sociologo dei media. Non può neppure essere definito come un sociologo tout court

Franco Rositi non solo non è etichettabile unicamente come sociologo dei media. Non può neppure essere definito come un sociologo tout court. Lo sottolinea, fra gli altri, Alessandro Cavalli ricordandolo sul sito dell’Ais, quando afferma che egli è stato anche un «costruttore di istituzioni».

Fra le imprese che gli stavano particolarmente a cuore, vanno annoverati due progetti realizzati a Pavia, dove ha trascorso gli ultimi vent’anni della sua carriera accademica, culminata con il riconoscimento di professore emerito, dopo il pensionamento. Nell’ateneo pavese, egli era stato chiamato a insegnare Sociologia nel 1990 dall’allora Facoltà di Economia, al termine di un percorso che, dall’iniziale incarico alla Statale di Milano, lo aveva portato prima a Bari e poi a Torino. Il primo progetto è consistito nella fondazione, con il politologo Giacomo Sani, del primo osservatorio in Italia finalizzato al monitoraggio continuo del pluralismo politico e sociale nei media: un ente nato nel 1994 e divenuto ben presto leader nel campo dei media research a livello nazionale e internazionale. Il secondo progetto è rappresentato dalla creazione dello Iuss, riconosciuto successivamente come istituzione universitaria speciale, alla stregua della Scuola normale di Pisa, nel cui ambito Rositi ha diretto per otto anni la Scuola universitaria superiore. Alla realizzazione di questo progetto ha dedicato dieci anni di lavoro, superando innumerevoli difficoltà, mosso dalla convinzione che occorresse creare un canale parallelo all’università – sempre più massificata – per la formazione delle classi dirigenti, sostenendo e valorizzando merito ed eccellenza.

L’enfatizzazione della qualità, del resto, è sempre stata una cura particolare di Franco Rositi, non solo nel suo lavoro scientifico e istituzionale, ma anche nelle imprese culturali in cui è stato coinvolto, quali la partecipazione al Consiglio d’amministrazione del Piccolo teatro di Milano, di cui è stato vice-presidente e presidente. È comunque indubbio che l’attività in cui si è impegnato più a lungo e più intensamente sia stata quella editoriale. Oltre alla già menzionata collana di Metodologia delle scienze sociali, egli ha infatti partecipato sin dalla fondazione alla pubblicazione de “L’indice dei Libri”, è stato co-fondatore e direttore de “Il Lavoro dell’Informazione”, ha contribuito, nel 2021, a varare la rivista on-line “ Indiscipline”, interamente dedicata a rassegne critiche e recensioni nel campo delle scienze sociali. In questo elenco, un posto a sé spetta alla “Rassegna Italiana di Sociologia”: una rivista che egli ha accompagnato con dedizione e passione nel suo percorso di crescita per quasi quarant’anni, da quando, nel 1973, è entrato a far parte del suo Comitato scientifico, assumendone anche la Direzione nel periodo 1983-86. Ai suoi occhi, la Rassegna non era solo una fucina di talenti. Era anche il luogo in cui sperimentare la nascita di una comunità scientifica che operasse con la stessa comunione d’intenti che unisce le comunità teatrali, come quella che aveva conosciuto al Piccolo teatro di Paolo Grassi e Giorgio Strehler. «Credo – diceva – che nel campo della sociologia italiana siano proprio mancate comunità di questo tipo e che fra di noi abbiano attecchito uno scettico disincanto individualista e il gregarismo degli interessi».

Riflettendo sulle battaglie che Franco Rositi ha combattuto per il prestigio della Sociologia e per la rivalutazione del panorama politico-culturale italiano, si potrebbe dire che egli abbia rappresentato un esempio concreto di «immaginazione sociologica», per citare Wright Mills che tanto ammirava. Una immaginazione capace di mantenere vivi i valori, in un contesto culturale sempre più povero di visione, unita alla volontà del costruttore, che traduce tali valori in progetti concreti. Ci mancherà molto.