Nel ripercorrere la biografia di François Truffaut, viene spontaneo chiedersi se la sua vita sia davvero andata così, o se magari sia stata inventata in quella forma da qualche psichiatra ansioso di far quadrare i conti tra i suoi film e le sue vicende personali, in nome di assiomi psicanalitici un po’ frusti quali la mancanza di amore materno o l’assenza del padre. In realtà, questa domanda non ha ragione d’essere. Perché qualsiasi cosa ci sia rimasta di François Truffaut (film, articoli, lettere, testimonianze, dichiarazioni) va in direzione di una sostanziale coincidenza tra la vita e il romanzo della vita. 

La sua infanzia, per esempio, è stata mitizzata negli anni come lo fu, tra i cineasti, forse solo quella di Charlie Chaplin. Trascurato da una madre farfallona e frustrata (figlia di nobili decaduti) e da un padre adottivo (quello vero non lo conoscerà mai), lasciato spesso solo nel loro appartamento vicino a Place Clichy, il piccolo François poteva solo divorare decine e centinaia di libri. E sgattaiolare nelle sale per vedere altrettanti film. Dopo una tumultuosa adolescenza fatta di piccola criminalità, lavoretti per sopravvivere e soprattutto una sfrenata passione autodidatta per cinema e letteratura, entra in scena il primo vero padre putativo, André Bazin. Critico di punta della Francia del dopoguerra, co-fondatore e direttore per tutti gli anni Cinquanta della storica rivista «Cahiers du Cinéma», Bazin lo ospita in casa sua quando si ritrova spiantato e in mezzo a una strada. E dà una chance a questo ragazzetto dal carattere impossibile, facendolo diventare un noto, polemico e chiacchieratissimo critico cinematografico: uno dei «giovani turchi» che inventano, sulle pagine dei «Cahiers» degli anni Cinquanta, la Politique des auteurs.

Essa voleva essere una sorta di rivoluzione copernicana secondo cui il cinema, come fenomeno estetico, doveva ruotare interamente intorno all’autore cinematografico, e al sistema stilistico attraverso cui il suo universo prendeva forma sullo schermo (la «messa in scena»). Un sussulto di retrogrado romanticismo (il «culto del Genio») all’interno della dilagante industria culturale di massa, certo, ma anche un fenomeno critico a tutt’oggi di enorme interesse, ricco di sottigliezze teoriche e preveggenze ancora da esplorare e soppesare appieno.  Ad ogni modo, per Truffaut la Politique des auteurs era soprattutto un nutrito pantheon di padri putativi; i vari Renoir, Rossellini, Hitchcock, Lang, Ophuls, Hawks, Ray e molti altri erano tutti «eroi» cinematografici che avevano realizzato (e reso possibile) il sogno di scrivere con la macchina da presa come si sarebbe scritto un romanzo. 

Per Truffaut la Politique des auteurs era soprattutto un nutrito pantheon di padri putativi; i vari Renoir, Rossellini, Hitchcock, Lang, Ophuls, Hawks, Ray e molti altri «eroi» cinematografici

Diventato regista, Truffaut ha effettivamente scritto un romanzo lungo più di venti film; un universo riconoscibilmente personale, caratterizzato da una nitida coerenza tematica. Al centro del quale c’è, probabilmente, e già dal fortunato esordio del 1959 I quattrocento colpi, l’infanzia. La sua refrattarietà, la sua magia, la sua innocenza, la sua crudeltà, restituite con occhio compiacente ma rigorosamente disincantato. Per lui, l’infanzia è la vacanza dolce e terribile da un’autorità paterna di cui non c’è (più) traccia, e di cui si conserva un’ambigua ma preziosa nostalgia. Al di là della frequenza con cui i bambini compaiono nei suoi cineracconti, la prima età sarà oggetto di un film intero, in assoluto uno dei più toccanti e azzeccati ritratti mai dedicati all’infanzia: Gli anni in tasca (1976), uno degli esempi più folgoranti di quella freschezza di tono che ha sempre contraddistinto il suo cinema e lo ha fatto ama re. Una freschezza impiegata soprattutto, in contropiede, quando la materia si fa più torbida. Come in quell’altra sua costante che sono i triangoli amorosi: l’utopico idillio di una donna e due uomini in Jules et Jim (1961), o quello, più cupo e a schema invertito, de Le due inglesi, dieci anni dopo, o ancora l’infedeltà lucidamente dissezionata de La calda amante (1964). È tutta qui la sua «trasgressione» (pure uno dei suoi temi-chiave, assieme a quell’altro retaggio hitchcockiano che è la colpa): un modesto andirivieni da quell’angusto orizzonte piccolo borghese che fieramente Truffaut rivendica come il suo mondo, se non addirittura il mondo. È comunque in primo luogo la trasgressione (uno dei «pungoli» a cui Truffaut ricorre più spesso per innescare la narrazione) a dare a Truffaut l’occasione di immergersi nelle sfumature della vita di coppia, di cui è (quasi distrattamente – nel senso che non è mai l’intento primario delle sue opere) eccellente osservatore e illustratore.  Anche quando la temperatura del pathos si eleva ai livelli fiammeggianti de La signora della porta accanto (1981). Ma se il menage-à-trois è un retaggio inconfondibilmente borghese, il mito del buon selvaggio è tra le poche cose che lo sono ancora di più. E difatti questo mito è regolarmente affrontato ne Il ragazzo selvaggio (1970), storia del caparbio tentativo di un medico (impersonato, appunto, da Truffaut), all’inizio dell’Ottocento, di educare un bambino cresciuto già per un buon numero di anni completamente allo stato brado. Se moralismo (e François Truffaut paternalismo) c’è, è abbracciato con una adesione talmente sincera da ribaltarsi pienamente in moralità. 

Moralista, il nostro cineasta, lo fu anche da critico. Gli piaceva, ad esempio, tagliare con l’accetta le idee di cinema. A parer suo, possono esserci solo o idee di regia o idee di sceneggiatura

Moralista, il nostro cineasta, lo fu anche da critico. Gli piaceva, ad esempio, tagliare con l’accetta le idee di cinema. A parer suo, possono esserci solo o idee di regia o idee di sceneggiatura. Dalle prime si riconoscono i veri autori, e dalle seconde gli impostori. Tra questi ultimi, gli assai detestati Jean Aurenche e Pierre Bost, sceneggiatori alfieri del cosiddetto «cinema francese di qualità», allora premiatissimo ai festival. La loro colpa era assumere come modello valido per qualsiasi  occasione, qualsiasi libro o storia, il complesso di regole drammaturgiche etichettabili come «sceneggiatura»: personaggi opposti tra loro  con schematicità, mezzucci di scrittura per orientare le simpatie dello  spettatore, trucchetti per tenere sempre alta la partecipazione dello  spettatore grazie a una scaltra alternanza di alti-e-bassi emotivi, incastri  meccanici tra personaggi e azioni, linearità standardizzata della progressione narrativa... «Questo è il cinema francese: trecento scene di raccordo, testa a testa, centodieci volte l’anno». Un’idea di regia, invece, è un’idea che per esprimersi non ha bisogno di una articolazione, ma si dà fulmineamente, in un colpo solo: un’idea che, di visivo, ha soprattutto l’immediatezza; l’efficacia plastica, invece, è di gran lunga secondaria. Raymond Radiguet, nello scrivere il suo Diavolo in corpo, usa numerose idee di regia, come quella per cui Marthe incontra François alla stazione saltando da un treno in corsa. Aurenche e Bost, nell’adattare lo stesso testo per lo schermo, lo inquinano di idee di sceneggiatura, e ambientano l’incontro tra François e Marthe in una scuola trasformata in ospedale solo per sottolineare l’antimilitarismo al cuore del libro e del film. Da una parte, ci sono concetti espressi mediante una pretenziosa, pesante intelaiatura drammaturgico-comunicativa. Dall’altra, non c’è nulla da «esprimere», ma c’è la coincidenza immediata di caratterizzazione dei personaggi, azione e movimento. Insomma: la modernità dei «giovani turchi» era ancora quella del ro manzo otto-novecentesco, con il suo sogno (già proto-cinematografico) di veicolare le idee avvicinandosi, con il linguaggio verbale, all’immediatezza della percezione sensoriale. Sogno che, per poter conservare l’egemonia degli schermi mondiali, è l’amata Hollywood classica a dover avverare, con il suo «primato dell’azione». Per la Politique, essere contro la sceneggiatura non era affatto (come è stato spesso ritenuto) una forma di disprezzo verso la finzione in nome di qualche autenticità. E nemmeno un capriccio di giovani scapigliati che avevano capito che, neanche tanto alla lunga, spacciarsi per anticonformisti paga. Il punto era il primato della sintesi sull’analisi: bruciare in un lampo ciò a cui le mediazioni del racconto possono arrivare solo con fatica. 

Perché, di questa causa, Truffaut si fece portabandiera con un impeto che rasentava spesso la violenza? Cosa c’era in questa disputa squisitamente estetica che lo riguardava in prima persona? Il fatto è che il racconto, come si sa con maggior chiarezza da Freud in poi, è una questione paterna. E per lui, cinema e letteratura sono inseparabili dall’assenza del padre (oltre che fra loro). Assenza che, nel suo caso, diventa un’autentica ossessione. Da questo paradosso, nasce l’interrogativo intorno a cui si sviluppa tutto l’universo truffautiano: come può esserci un racconto (di nuovo: una questione paterna) senza racconto?  Cosa può essere un racconto al di fuori della obbligata strutturazione standard che lo fa essere un racconto? 

Per Truffaut, una storia è una questione biologica. In nessuna filmografia come nella sua i libri sono soliti avere un corpo: pagine stampate, volumi, copertine affollano le sue immagini e reclamano il primo piano

Per Truffaut, una storia è una questione biologica. In nessuna filmografia come nella sua i libri sono soliti avere un corpo: pagine stampate, volumi, copertine affollano le sue immagini e reclamano il primo piano, o comunque le attenzioni della cinepresa, quanto e come la più capricciosa delle star. Fahrenheit 451 (1966) è rimasto famoso soprattutto per i suoi uomini-libro. A suo modo, anche l’alter ego truffautiano per eccellenza, Antoin Doinel, è una sorta di uomo-libro: seguito da quando aveva dodici anni con quel I quattrocento colpi che ha lanciato l’esordiente cineasta sulla ribalta internazionale, Doinel sarà al centro di altri quattro film, tutti interpretati da Jean-Pierre Léaud e tutti (specie il primo) largamente ispirati alla vita di Truffaut. Doinel e Léaud, personaggio e attore, cresceranno e invecchieranno insieme: al cinema spetta di sigillare questa coalescenza, e mostrarla. Fino a quel L’amore fugge (1979) che include spezzoni di pellicola prelevati di peso dagli altri film del «ciclo-Doinel», e grazie ai quali i flashback non sono solo svarioni del tempo del racconto, ma anche discrasie del tempo biologico registrato sulla pellicola. Lo stesso film mostra il protagonista (e l’attore) a 12, a 21, a 32 anni... ed è Doinel, qui, a scrivere un’auto biografia in forma di romanzo. Qualche anno prima, con Effetto notte (1973), Truffaut aveva interpretato il regista di un film-nel-film in cui recitava lo stesso Léaud, confermando il vertiginoso gioco di specchi tra due dimensioni (il set, la vita) in assoluta continuità. 

Non si tratta, banalmente, di «avvicinare il racconto alla vita» e renderlo più simile a essa. L’impianto narrativo delle opere di Truffaut è sempre molto tradizionale: solide commedie, focosi melodrammi, scaltri gialli, tutti pervasi da un’inconfondibile, umanissima, proverbiale tenerezza. In decenni come i Sessanta o i Settanta, questo suo attaccamento a forme di racconto consolidatissime risultava quasi anacronistico e controcorrente – e condannato, come tale, dall’ex sodale degli anni dei «Cahiers», Jean-Luc Godard. Tuttavia, se c’è una cosa che gli ha insegnato il maggiore dei suoi auteurs-padri putativi, Alfred Hitchcock (col quale firma un epocale libro-intervista di cui lui stesso ammise i sottintesi psicanalitici, paragonando il loro dialogo a quello di Edipo con la Sfinge), è come aggirare le necessità della narrazione. Come uccidere la sceneggiatura con un delitto perfetto, che non lascia tracce.  Conservando perfettamente le apparenze di una narrazione tradizionale, Hitchcock mette completamente da parte le necessità della sceneggiatura (equilibrio drammaturgico, distribuzione razionale dei picchi patetici, linearità dei rapporti causa-effetto ecc.), e costruisce con la sua macchina da presa una tessitura di sola forma che «scavalca» la drammaturgia e agisce direttamente sui nervi dello spettatore. L’allievo francese «scalza» la sceneggiatura con un raffinatissimo sistema fatto di simmetrie, rime, parallelismi, ripetizioni significanti; una vera e propria scrittura supplementare, la cui attivazione aggancia autonomamente l’emozione dello spettatore, senza bisogno del solito polveroso archi trave drammaturgico. Il «discorso» che si innesta sulla «storia» (per usa re due termini antiquatamente letterari che, proprio per questo, bene si adattano all’orgogliosamente démodé Truffaut) è, paradossalmente, proprio l’esposizione del meccanismo al fondo della narrazione nella sua nudità, non più nascosta dalle «foglie di fico» della verosimiglianza e della necessità evenemenziali comandate dalla sceneggiatura. Per questo Truffaut amava tanto la letteratura di serie B: lì la meccanicità delle storie è così esibita da raggiungere, che lo voglia o no, vette onirico-favolistico-surrealiste – cfr. Tirate sul pianista (1960), La sposa in nero (1968) o La mia droga si chiama Julie (1969). Ne L’ultimo metrò (1980), il film forse definitivamente teorico del regista francese, lì sotto il palco (nascosto dai Nazisti che lo cercano negli anni dell’Occupazione francese), anche se non si vede, c’è un vecchio regista teatrale che dirige tutto, dirige perfino l’incontro «impensato» (come la vita catturata dal cinema) tra la moglie Catherine Deneuve e il giovane attore Depardieu che recitano per lui. Fuori dal teatro, però, c’è un bambino con la stessa età che aveva Truffaut in quegli anni di guerra, che non fa altro che crescere piantine: il film, ferma restando la struttura tradizionalmente narrativa, è un organismo vivente che, per crescere, ha bisogno di un tempo tutto suo, di una durata, di un ritmo, di una fisionomia a sé, che non sono quelli «precotti» e schematici della drammaturgia standard, ma che si sovrappongono ad essa sostituendola di fatto.  

Non sorprende che la ripetizione organica di elementi giochi un ruolo fondamentale in questa microfisica testuale grazie a cui Truffaut scrive «sopra» le sue storie senza mai rinunciare al lusso di essere un narratore rigorosamente discreto e invisibile. Soprattutto se messa in relazione con il collezionismo pressoché patologico che ha caratterizzato la sua biografia e parte della sua filmografia (soprattutto da metà anni Settanta in poi). Centinaia di libri maniacalmente classificati in ordine alfabetico già nell’infanzia, mentre si accumulava, poco lontano, una valanga di materiale cartaceo sui registi amati, minuziosamente catalogato; di lì a poco, avrà inizio la coazione a ripetere cinefila che darà luogo a innumerevoli visioni in sala. L’uomo che amava le donne (1977) trasfigurerà queste manie in quelle di un impenitente Don Giovanni, per il quale il piacere del collezionare donne è strettamente inseparabile dall’eternare le sue conquiste attraverso, ancora una volta, la scrittura autobiografica. Non fosse che, sul filo di questa scrittura, il protagonista si accorge  di essere ben lontano dal possedere l’oggetto di desiderio: semmai,  scopre di essere sempre stato alla mercé di quest’ultimo... Ancora più  intimo, La camera verde (1978) racconta di Davenne, giornalista negli  anni Venti della provincia francese, interpretato da Truffaut stesso e  ossessionato dai ricordi lasciati dai morti, cui dedica un meticoloso  culto in cui si riflette con una certa evidenza quello letterario-cinefilo di  gioventù – tanto più che tra le foto dei cari estinti si riconoscono Jean  Cocteau, Oscar Wilde, Henry James... E «La chambre noire» era il nome del cineclub in cui conobbe André Bazin. Le lunghe, impersonali, ripetitive liste di oggetti diversamente amati la fanno da padrone in queste due opere, speculari come lo sono l’amore e la morte. 

Probabilmente, però, il personaggio maggiormente capace di definire la poetica truffautiana è il più ossessivo di tutti: Adèle Hugo. Adèle H. (1975) racconta della figlia di Victor Hugo, letteralmente impazzita d’amore per un tenente assolutamente insignificante (un tale Pinson), rincorso invano per anni, continenti e oceani, che è in realtà solo un modo come un altro per nascondere a se stessa e rimpiazzare l’amore per un padre troppo grande da cui si è irreparabilmente allontanata.  Per quanto la folle Adèle si affanni a ripetere «sono figlia di padre ignoto... sono figlia di padre ignoto», suo padre è anche troppo noto, e per questo è inavvicinabile. Jacques Lacan la chiamava «preclusione (forclusion) della metafora paterna»: il biografico padre ignoto di Truffaut si fonde con Hugo, il padre con la P maiuscola, scrittore con la S maiuscola di racconti con la R maiuscola. La via maestra della Grande Narrazione è sbarrata per Truffaut, la cui carriera sarà uno sconsolato vagare nella sua ombra, reagendo a questa impossibilità (esattamente come Adèle con le sue lettere fittissime vergate compulsivamente) con una bulimia di scrittura. La gloria del suo cinema consiste in ciò che, grazie alla sua abilità di «scrittore per immagini», sboccia ai margini della coazione a ripetere l’incontro perennemente mancato con il Grande Racconto: e raramente questa ripetitività brillante e inventiva che informa il suo «scrivere con la macchina da presa» è tanto evidente quanto in Adèle H

Non di rado, quando una cosa sembra buttarsi a capofitto nel passato, essa sta venendo in realtà sbalzata verso il futuro. Il cinema di François Truffaut ne è un esempio palese. La tecnologia e i mezzi di comunicazione non ci avranno trasformati in uomini-libro, ma ci hanno sicura mente invasi di scrittura. Nella odierna rete globale, la scrittura è, più che mai, dappertutto – e meno che mai la nostra esistenza biologica può sentirsi immune dall’esserne contaminata. Viviamo con la scrittura, quotidianamente, fino quasi a respirarla. Non c’è più un Grande Racconto che tracci la distinzione tra noi, coi nostri corpi viventi, da una parte, e la scrittura dall’altra, nel rassicurante alveo della letteratura. Il cinema di Truffaut, costruito precisamente sull’essere orfani di un tale Grande Racconto, è capace come pochi altri di suggerirci quanto la nostra esistenza biologica e la scrittura siano già/sempre compenetrate l’una nell’altra. 

[Questo articolo è apparso sul numero 1/2012, pp. 160-166.]