Tre settimane fa l’editore americano W.W. Norton ha bloccato la distribuzione della biografia di Philip Roth perché il suo autore, Blake Bailey, è accusato di violenza sessuale. Ora il libro ha trovato un nuovo editore, Skyhorse Publishing. Un indipendente che in passato ha pubblicato, per esempio, l’autobiografia di Woody Allen (negli Stati Uniti abbandonata da Hachette), e che tende a occuparsi, per sua stessa ammissione, di libri che faticano a trovare una casa. In parte, forse, è un’astuzia di mercato. Il libro «cancellato» come nicchia commerciale.

La vicenda è stata ed è tutt’ora discussa, sia da chi è interessato ai libri, sia da chi lo è meno. In realtà non è semplice discuterla, un po’ attira, un po’ dà fastidio. Scappa da tutte le parti, a tratti sembra un piccolo animale che ci osserva, nascosto sotto un mobile. In questo somiglia a tutte le vicende che oggi fanno rumore, e che, con rumore, siamo così convinti di affrontare.

Io ho comprato il libro su internet tempo fa, quindi nell’edizione Norton, ora ritirata. L’ho ordinato prima che uscisse e prima che emergessero le accuse. Ma l’avrei voluto in ogni caso, perché in genere scelgo di leggere un libro senza badare alle circostanze che lo accompagnano, e soprattutto perché sono una persona curiosa. Il volume è arrivato con lentezza, a un certo punto il venditore mi ha mandato un’e-mail, «Siamo spiacenti, l’ordine subirà un ritardo». Non so se questo fosse legato al fatto che, nel frattempo, il libro era stato bloccato. Comunque sia, adesso è qui con me.

Lo leggo disordinatamente, ma non è strano, ho un rapporto conflittuale con le biografie. Mentre leggo penso al soggetto del testo, non al suo autore. Penso a Roth, insomma. E questo è inevitabile. Formulo anche delle riflessioni un po’ scontate. Guidata da una sorta di buon senso della lettrice (e forse da un fastidio che provo come scrittrice), mi chiedo: ma non potremmo limitarci a leggere i suoi romanzi, invece di pretendere di sbirciare nelle pieghe della sua vita? Sarebbe giusto. Se non fosse che Roth questa biografia l’ha voluta. Non è slegata da lui, dai suoi desideri, ma è una sua emanazione. Perciò forse sentiamo che dobbiamo «occuparcene».

Cerco quello che mi interessa di più, alcuni snodi che richiamano i romanzi. Mi soffermo sui passaggi che mi colpiscono personalmente, per esempio un soggiorno londinese di Roth a Fawcett Street, dove si trovava la casa di Claire Bloom, la sua seconda moglie. Una zona della città che conosco e che per me assume significati. Riesco a vedere molto bene quella casa, conosco quel genere di case. Riesco a immaginare gli ambienti in cui si svolgono i litigi e gli scontri, il terzo piano che viene trasformato in appartamentino per la figlia di Claire. Penso a cose stupide, ma contemporaneamente significative, del resto è normale, una biografia tende a farci pensare a cose stupide e significative. Cioè, mi chiedo se un uomo come Roth mi sarebbe piaciuto. Non è la prima volta che me lo chiedo, ma al cospetto di questo libro la domanda prende corpo.

Soprattutto provo a capire a cosa può servirmi una biografia. Le biografie sono oggetti ambigui. Non sono un’appassionata delle vite degli altri scrittori, a meno che non siano parte di un lavoro di autofiction, che però in genere ha un respiro e un significato diverso, e obiettivi estetici differenti. Mi incuriosisce che si possa pensare di catturare l’esistenza di chi scrive, l’esistenza di qualcuno che perlopiù ha vissuto all’interno della propria immaginazione, davanti a una pagina da riempire. Qualcosa di insensato mi affascina, però. Qualcosa che ha a che fare con l’oggetto libro, l’oggetto biografia. Come se fosse una parte fisica dello scrittore, isolata scientificamente. Una parte che, grazie agli studiosi, il lettore può possedere. Una sorta di perversione. Odio, amore, dubbie devozioni.

Tendo a pensare che la vita raccontata, specialmente se presentata come «vera», sia una menzogna. So che la nostra lingua si inceppa non appena iniziamo a «parlare del vero», a dire «guardate che ciò che sto per raccontarvi è vero». Per me la verità appartiene alla poesia, la verità compare senza preavviso e lo fa con estrema fatica. Immagino il biografo che cerca di trovare qualcosa da dire, che cerca di costruire, oppure che si adagia e non scava realmente, accecato dall’ammirazione per la persona che sta rappresentando. Dai tempi della scuola, quando ti obbligavano a studiare prima la vita dello scrittore e dopo l’opera, provavo un certo malessere, e mi annoiavo, io volevo sempre arrivare all’opera. Ma Roth è uno scrittore che ho letto a fondo, che mi interessa. E in ogni caso sono più che attrezzata per leggere libri imperfetti, qualsiasi sia la loro imperfezione.

Il volume dell’edizione Norton è elegante, con qualche elemento di sontuosità. In copertina, una foto in bianco e nero di Roth vicino a una finestra, la posa è pensosa. Una scritta grande e dorata, «Philip Roth», e in piccolo, in nero, «The Biography». Una scritta bianca per l’autore: Blake Bailey. All’interno, una carta liscia e profumatissima, l’equivalente cartaceo di un maglione di cachemire. E tante foto. Un prodotto creato per essere amato da chi ama i libri anche come oggetti. Un prodotto creato per evocare una certa idea della letteratura, qualsiasi cosa sia, poi, ma l’intento di evocare la letteratura tramite la fisicità del prodotto c’è, e possiamo pensare che sia kitsch, se non fosse che, nel pensarlo, siamo kitsch a nostra volta. Un prodotto creato con amore e attenzione, il risultato del lavoro di varie persone, di sicuro. Agenti, editor, correttori di bozze, grafici. Un prodotto creato e poi distrutto. E ora recuperato da un altro editore, ma comunque ormai «con una storia», e forse recuperato proprio per via di questa storia. Sono segnali? Di che tipo? Ci interessano?

Un prodotto creato per evocare una certa idea della letteratura, qualsiasi cosa sia, poi, ma l’intento di evocare la letteratura tramite la fisicità del prodotto c’è, e possiamo pensare che sia kitsch, se non fosse che, nel pensarlo, siamo kitsch a nostra volta

Il punto della questione non è, in apparenza, molto complicato: pensiamo che sia giusto o sbagliato distruggere un libro perché il suo autore è, potenzialmente, un criminale? Questo «potenzialmente» è importante, perché Norton ha scelto di fare un’operazione preventiva. Lo ha fatto, immaginiamo, per un complesso di ragionamenti, e anche di calcoli di convenienza che a noi non dovrebbero importare, non tanto nel senso che dobbiamo sentirci puri e disprezzare i calcoli di convenienza di un’azienda, quanto nel senso che non dovrebbero influenzarci. Non siamo certo azionisti dell’editore, perciò al di là della nostra morale possiamo permetterci di avere la mente libera. E la vicenda, di sicuro, è fumosa, e non vogliamo cascare nei tranelli per distrazione. L’editore era a conoscenza di alcune situazioni esplosive da un po’, pare. Ma solo ora, di fronte alla loro deflagrazione, è emersa la decisione di ritirare il volume dal mercato.

Notiamo subito come il nostro «sentirci puri» abbia qualcosa di difficoltoso. Siamo puri se crediamo che uno scrittore che forse ha fatto qualcosa di orribile non deve pubblicare? Oppure siamo puri se pensiamo che il libro deve essere distribuito comunque, perché un libro non coincide con chi lo scrive, e l’editore che non lo distribuisce sbaglia perché è guidato da ragionamenti pratici e da un moralismo un po’ volgare? Spesso capita, oggi, di notare come la purezza, l’autenticità, il Bene siano caratteristiche sfuggenti. I sistemi di ragionamento adottati da alcuni soggetti che assumono una posa sembrano, dietro le apparenze, gli stessi adottati da quelli che assumono la posa contraria. Sentiamo che le situazioni dovrebbero essere analizzate con più cura, lo sentiamo con una speciale intensità, ma sentiamo anche che la nostra cura è anacronistica e inconcludente. Non siamo veloci. Oggi una certa velocità di reazione è importante: dire subito come la si pensa, in modo netto. Io stessa, mentre scrivo questo testo, penso che sono lenta.

I calcoli di Norton, in questa vicenda, sono economici ma non in senso banale. Lo sono quantomeno in senso lato. Oggi l’etica è sempre di più una parte integrante dei ragionamenti aziendali, e persino le emozioni entrano a far parte dei numeri

I calcoli di Norton, in questa vicenda, sono economici ma non in senso banale. Lo sono quantomeno in senso lato. Oggi l’etica è sempre di più una parte integrante dei ragionamenti aziendali, e persino le emozioni entrano a far parte dei numeri, se pensiamo per esempio che sono ormai comuni i fondi d’investimento e quindi i soldi che sono gestiti anche tenendo conto di una serie di considerazioni morali. E se ci è arrivata la finanza, figurarsi il resto. È una bella cosa? È una tendenza di lungo periodo, nel senso che siamo solo agli inizi. Le aziende ormai si confrontano non solo con ciò che ha senso fare in base alla loro missione, e non solo con ciò che è finanziariamente o legalmente delicato, ma anche con ciò che tocca l’etica e persino le emozioni della società. Ancor più in campo culturale, verrebbe da dire, ma ribadisco che pure fuori dal campo culturale c’è molta attenzione al buon comportamento (ambientale, sociale) delle imprese. Questo accade perché è in atto un cambiamento genuino, epocale, che ci regalerà soggetti economici migliori, più responsabili? Oppure accade perché sotto sotto c’è il capitalismo, inteso come forma assunta dalle cose, e il capitalismo è l’oggetto antifragile per eccellenza, capace di modificarsi e sopravvivere in qualsiasi tipo di caos, e ora «sente» (mi piace dare al capitalismo un’anima) che gli conviene fare così? Seguire una tendenza del tempo? La domanda è aperta, ed è in cima ai nostri interessi.

Il nuovo editore, Skyhorse, che si inserisce e pubblica «il libro incriminato», è salutato da molti come un segnale di forza del mercato libero che trova soluzioni e combatte contro i moralismi. Tutto si sistema grazie alla libertà economica, alla sua imparzialità. In realtà, naturalmente, Skyhorse diventa a sua volta un soggetto che si adegua alla moda del capitalismo etico, seppure sfruttando il verso opposto della questione: è l’azienda contraria alla cancellazione dei libri, l’azienda coraggiosa, a favore delle voci impopolari. Arrivando dopo lo scandalo, volente o nolente assume questa posa.

Tornando alla biografia di Roth, possiamo spaccarci in due gruppi. Perché? Perché oggi, su qualsiasi cosa, ci si spacca in due gruppi. Posizionarsi in un modo o nel modo opposto

Tornando alla biografia di Roth, e al fatto che, comunque sia, non siamo azionisti di nessun editore e non dobbiamo fare valutazioni di reputazione generale, resta da decidere come la pensiamo. Possiamo spaccarci in due gruppi. Perché? Perché oggi, su qualsiasi cosa, ci si spacca in due gruppi. Posizionarsi in un modo o nel modo opposto.

Da un lato, coloro che ritengono che i libri non si debbano mandare al macero anche se il loro autore «è quello che è» (anche se fosse la persona più orribile del mondo, estremizzando), dall’altro coloro che pensano che distruggere, per quanto sia un gesto un po’ troppo energico e con un sapore dolciastro, possa avere un senso. Una questione di giustizia. Il primo gruppo di solito ritiene che un libro vada valutato in sé, senza badare all’autore. Se questa biografia è stata considerata fino a un minuto prima un lavoro degno di pubblicazione, non si vede perché debba essere distrutta non appena esplode uno scandalo. Dopodiché, certo, se il suo autore è un criminale bisogna che sia punito dalla legge, ma il discorso è separato. Questo pensa il primo gruppo. Il secondo gruppo ritiene che la cancellazione del libro sia forse enfatica, ma abbia un valore simbolico, un’importanza che va oltre la moda del tempo e che ha a che fare con il riconoscimento di alcuni cambiamenti storici fondamentali. Non solo. Il secondo gruppo solitamente ritiene che le persone che hanno denunciato l’autore debbano essere rispettate evitando che l’autore abbia anche un solo momento di gloria finché la situazione non è stata chiarita. L’autore deve essere «messo al suo posto» perché è ora che non parlino sempre le solite voci dal suono imbevuto di ambiguità.

Questa seconda impostazione contiene un vizio di fondo, ossia l’idea che sia necessario guidare e orientare la società attraverso le proibizioni culturali. Ma un lettore è un soggetto complesso, e se non lo è ambisce a diventarlo proprio leggendo. Non è un soggetto che bisogna guidare e orientare. Anche la prima impostazione è viziata, lo è perlopiù nei toni e nei metodi, perché dicendo che «un libro va pubblicato a prescindere dalle malefatte dell’autore» evitiamo di affrontare il fastidio che invece è parte viva e integrante della letteratura. Non è possibile negare che, in certi casi, possa esistere un fastidio legato a chi ha scritto l’opera: non siamo così neutrali, non sempre. Questo fastidio, però, non deve essere soffocato. È interessante. E se il motivo per cui ha senso leggere un certo libro scritto da una persona potenzialmente orrenda fosse anche che a scriverlo è proprio questa persona? Dicendo che «un libro va pubblicato a prescindere» evitiamo del tutto questa domanda fondamentale. Una domanda così letteraria, così piena di ombre, una domanda che si permette di avere risposte poco edificanti. Come non amarla?

Tutto qui? I due gruppi e abbiamo fatto? In realtà no. Perché la biografia non è mai un prodotto culturale semplice, ma è un prodotto derivato. La biografia di uno scrittore, come libro, ha un elemento sottostante che è lo scrittore di cui si parla, e naturalmente la sua vita. È difficile non provare un senso di vertigine immaginando come la biografia di Philip Roth, un autore molto celebrato, ma che è stato più volte accusato di misoginia dentro e fuori dall’opera, venga distrutta perché il biografo è sospettato non solo di misoginia, ma di violenza. Roth nelle opere ha usato elementi della sua vita proiettandoli in tutte le direzioni e scomponendosi come la luce che attraversa il prisma, tramite l’adozione di personaggi vicini a lui. Al cospetto delle notizie su Bailey, sulle presunte violenze e sul ritiro dell’edizione Norton in America, è facile fare la battuta: sembra di essere in un libro di Roth. Infatti la battuta è stata fatta, con variazioni.

"Rendimi interessante", chiede Roth a Bailey. Intendeva dire che non vuole essere riabilitato, o peggio ancora santificato. Preferiva l’idea di essere raccontato in modo appassionante. Però si sente sotto questa richiesta il timore di non essere stato interessante a sufficienza

Bailey, il biografo, è stato scelto da Roth, i due in qualche modo si sono trovati. Bailey cioè non arriva dal nulla, ha scritto la biografia avendo accesso a molti documenti, manoscritti inediti, trascrizioni di interviste, tutti oggetti preziosi. E ha ricevuto, da Roth stesso, il compito di «rendere interessante» lo scrittore. Lo si legge proprio sulla prima pagina del libro. «Rendimi interessante», chiede Roth a Bailey. Mi colpisce questa frase. Roth intendeva dire che non vuole essere riabilitato, o peggio ancora santificato. Preferiva l’idea di essere raccontato in modo appassionante. Però si sente sotto questa richiesta una specie di timore, quello di non essere stato interessante a sufficienza. Come è possibile? Philip Roth è morto con una insicurezza del genere? La paura di non averci appassionato abbastanza? Pochi scrittori hanno ricevuto, in vita, l’attenzione che gli è stata riservata. Che tipo di persona vive con la paura di non essere mai abbastanza interessante? Forse tutti, in fondo? Everyman.

All’interno di queste contraddizioni vive pericolosamente il libro incriminato, la biografia «con una storia». Un oggetto che diventa sempre più oggetto, proprio perché è parte di una vicenda. E cosa c’è di più letterario di questo? Penso alla pistola di Čechov, uno degli oggetti più oggetti della letteratura: «Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari».