Entrando a Lerici si vede un'insegna con scritto "Città per la pace". Niente di strano, perché cartelli del genere si trovano un po' ovunque, imbullonati dagli operai comunali sotto a quello che ci dice dove siamo arrivati. Da un certo punto di vista ciò potrebbe sembrare privo di senso. Il sindaco non ha il potere di dichiarare le guerre o di farle finire. Tuttavia, se quei cartelli sono lì, non è perché nei consigli comunali di mezza Italia si è diffusa un'epidemia di delirio di onnipotenza, del tipo di quella che fa indossare il cappello di Napoleone ai matti della "Settimana Enigmistica". Consiglieri e assessori sanno di non avere il potere di far rientrare i soldati italiani dall'Afghanistan: quella scritta è un messaggio politico che in qualche modo esprime lo scontento della popolazione di quel comune per il fatto che il Parlamento ce li abbia mandati e ce li lasci. Non sono parole indirizzate ai soldati, insomma, ma al Parlamento, nella speranza che le ascolti e che riporti a casa l'esercito.

Tutti abbiamo sentito parlare del Registro delle coppie di fatto del comune di Milano, da poco istituito tra mille polemiche e le solite pittoresche dichiarazioni cattoliche ("Diventerà una città di poligami", ha vaticinato il cardinale Scola). Certo, Milano sottratta alla destra dopo due decenni e contro il volere del Partito democratico è un sorvegliato speciale della stampa politica. Tuttavia, non le spetta l'esclusiva, poiché registri del genere esistono da tempo in molti altri comuni italiani. Ma a che cosa servono? I comuni non possono creare istituti simili ai Pacs, perché quella è competenza del Parlamento. Quei registri, quindi, sarebbero simili alla scritta "Città per la pace": un messaggio politico che non ha alcuna rilevanza sui diritti delle persone, ma che è lì per far pressione sul legislatore affinché, appunto, legiferi per attribuire diritti ai conviventi anche omosessuali.

Tuttavia, tra i cartelli e i registri ce ne corre. I comuni non possono decidere guerra e pace, ma possono fare qualcosa per i diritti dei conviventi. Per esempio, hanno ampia competenza in materia fiscale e potrebbero stabilire sgravi o agevolazioni per chi si iscrive nel Registro, come spesso spesso fanno a favore delle coppie sposate; possono assegnare alloggi e contributi agli sposi in condizioni di bisogno, che potrebbero benissimo estendere ai novelli conviventi nelle stesse condizioni. Già da questi pochi esempi si vede che il Registro a qualcosa potrebbe servire subito, a patto che all'iscrizione corrisponda qualcosa di giuridicamente significativo. Poca cosa, forse, ma pur sempre meglio di niente e, soprattutto, più di quanto abbia finora fatto il Parlamento.

In linea generale, tuttavia, si continua a dire che l'istituzione del Registro è un solo un messaggio politico, anche se importante. Certo, è innegabile che sia anche questo. Il punto, però, è che si tratta di un messaggio il cui contenuto dipende dalle conseguenze giuridiche che i comuni fanno seguire all'istituzione del Registro, cioè da quello che le amministrazioni fanno oltre a istituirlo. Se il messaggio che si vuole dare è quello di spingere il legislatore a legiferare per il pieno riconoscimento delle coppie di fatto, il gesto politico deve essere di fare quanto più possibile, il massimo nella potestà dell'amministrazione locale per attribuire diritti alle coppie di fatto. Diversamente, e al di là delle eventuali dichiarazioni altisonanti, il segnale politico è che per queste coppie non si vuole far niente se non dire che esistono. Non si intoni la solfa della "gradualità", perché qui la gradualità non c'entra niente: i diritti o ci sono o non ci sono, e di certo non è "graduale" invitare le persone a iscriversi in una lista, in un "Registro", senza che ciò produca alcun risultato. Qualcuno potrà dire che "è un inizio". Da parte mia, invece, sospetto che sia una fine. È finita lì: non si è fatto niente e possiamo aspettarci che non si farà altro.

Questo, c'è poco da fare, è ciò che per lo più abbiamo di fronte: si istituisce il Registro e tutto finisce lì. Ed è proprio quello che succede con il Registro del Comune di Milano: istituito tra un anatema e una dissociazione, tra una "libertà di coscienza" e una "coraggiosa presa di posizione", il Registro non ha trasformato Milano nella città dei poligami, come era prevedibile, ma non ha attribuito un diritto che sia uno a chicchessia. Non una riduzione fiscale, non un contributo comunale, non un alloggio. Solo il permesso di scrivere i propri nomi su un foglio di carta in un ufficio del comune, anziché inciderli con un temperino sul tronco di un albero del parco.

Ha ragione chi dice che quei registri sono messaggi politici. Nella maggior parte dei casi però, e Milano tra questi, sono messaggi politici pessimi.