Le dimissioni presentate dal presidente del Consiglio Mario Draghi giungono alla fine di un percorso iniziato molto tempo fa, addirittura al momento del suo insediamento, all’inizio del 2021. È proprio il punto di partenza ad aver prodotto la linea di frattura, nascosta ma ben visibile, che divide il capo del nuovo esecutivo dai partiti che lo sostengono. La nomina di Draghi a Palazzo Chigi, fortissimamente voluta dal presidente Sergio Mattarella, non ha avuto alcun imprinting politico – né lo poteva avere. Si trattava di una nomina tecnica e super partes che, come nei casi di Carlo Azeglio Ciampi e Mario Monti, implicava un sostegno corale da parte dei partiti presenti in Parlamento, e quindi di una depoliticizzazione della sua attività. La giustificazione del suo insediamento, più volte rivendicata, riguardava la gestione della campagna vaccinale, peraltro già ben avviata dal commissario Arcuri, e la definizione del Pnrr, anch’essa già impostata dal governo Conte e non sconvolta nelle sue linee guida dal nuovo governo, come riconosciuto dallo stesso Draghi.

Nella sua conferenza di fine anno, il presidente del Consiglio ha riconosciuto, con scarsa lungimiranza, che il suo compito poteva dirsi esaurito, avendo compiuto la missione affidagli. Con ciò candidandosi implicitamente per il passaggio al Quirinale, al quale evidentemente ambiva. L’ostruzionismo dei partiti, evidente e al tempo stesso sotterraneo, di fronte a questa ipotesi ha reso palese quella frattura invisibile che fin dall’inizio separava il capo del governo dalle forze politiche. Come disse Paolo Mieli con una chiarezza financo brutale, “Draghi stava antipatico a tutti i partiti”. Che infatti al momento buono non hanno avuto remore nel dimostrarlo.

A questo punto era il presidente del Consiglio a non aspettare altro che rendere la pariglia alle forze politiche che l’avevano azzoppato nella corsa al Colle. L’insofferenza per le contrastanti pressioni tra sinistra e destra, più quelle inclassificabili (ma solo fino agli ultimi giorni) dei pentastellati, è diventata sempre più chiara ogni giorno che passava, trattenuta solo dall’infittirsi dell’agenda internazionale, a causa della guerra, che ha comprensibilmente assorbito molta attenzione da parte del capo del governo. Ma era solo questione di tempo. Draghi ha trovato nell’esplodere dell’insofferenza contiana per le ripetute misconsiderazioni delle proposte pentastellate la finestra d’opportunità per prender cappello e dimettersi. In questa occasione è emersa tutta la sua insofferenza per il ruolo che, dopo la riconferma di Mattarella, aveva dovuto svolgere in questi mesi. Al punto che il presidente della Repubblica lo ha dovuto invitare, tanto garbatamente quanto fermamente, a ripresentarsi in Parlamento per comunicare ufficialmente la sua decisione di dimettersi.

Draghi ha trovato nell’esplodere dell’insofferenza contiana per le ripetute misconsiderazioni delle proposte pentastellate la finestra d’opportunità per prender cappello e dimettersi

La premiership di Draghi presenta un bilancio con luci e ombre. Non memore dell’esperienza di Mario Monti, non ha concentrato una intensa attività riformatrice nei primi messi quando aveva “i pieni poteri”: ha diluito la sua azione nel tempo nella speranza, forse, di trovare un bandolo nella matassa della eterogeneità della coalizione che lo sosteneva, ma con il risultato di rimanere in surplace su troppi temi. In questo modo la sua azione ha perso di incisività, limitandosi a una buona gestione del Pnrr, peraltro aiutato dalla “comprensione” di una benevola considerazione dei media sul suo incedere – con alcune meritorie eccezioni tra cui gli interventi critici di Fabrizio Barca e Gianfranco Viesti.

Mercoledì Draghi si presenterà al Parlamento per ribadire la sua insofferenza per la politique politicienne. Una insofferenza comprensibile per molte ragioni

Mercoledì Draghi si presenterà al Parlamento per ribadire il suo gran rifiuto, indipendentemente dall’esistenza di una maggioranza. Suggellando in questo modo la sua insofferenza per la politique politicienne. Una insofferenza comprensibile per molte ragioni. Ma governare un arco di forze che va dalla Lega ad Articolo 1 poteva reggere solo per un tempo brevissimo e per uno scopo definito. Le due finalità con cui Mattarella aveva investito il governo si erano esaurite già dicembre. Salvo poche eccezioni, i partiti non ne hanno preso atto e hanno portato questa esperienza di governo tecnico al suo esaurimento. Sarebbe stato meglio se avessimo avuto un nuovo esecutivo a inizio anno e fossimo andati a votare in primavera. Ora è tutto maledettamente complicato.