La celebrazione dell’unità d’Italia è ormai alle porte, pur tra molte difficoltà.
Ma quale Italia ci apprestiamo a celebrare? I giornali e, soprattutto, la televisione ci sommergono con  immagini e rappresentazioni di un’ Italia assai diversa da quella reale. Se le impressioni prevalgono sulla ricerca della verità, perché l’audience conta più della qualità dell’informazione, si affermano alcuni “effetti mediatici” assai pericolosi che  semplificano, edulcorano la realtà sociale e generano risentimento. Si diffonde una cultura comune intorpidita che alimenta l’incompetenza e il declino dell’opinione pubblica. Un primo effetto è quello della  semplificazione stereotipata. Viene presentata un’Italia a tinte fosche e senza chiaroscuri: è l’Italia della “guerra civile”, in cui personaggi  politici si esibiscono di fronte alle telecamere in insulti alla parte avversa, parolacce e volgarità  fino a poco tempo fa patrimonio delle discussioni da bar dopo la partita. Queste immagini più che di “guerra civile” parlano di degrado della sfera  pubblica, ossia di quegli spazi in cui si discutono questioni di rilevanza collettiva, questo sì fenomeno reale e allarmante.

Nel vuoto di politiche dell’informazione di massa, nulla viene argomentato di fronte a un pubblico, il tanto richiamato “popolo” sovrano, che – si vede – non deve essere informato e convinto con buone ragioni, ma incitato e pungolato come allo stadio. Perché mai faticare a spiegare che cos’è una legge o un provvedimento, le conseguenze che produce, i problemi che risolve, se basta insultare chi la pensa diversamente?
Un esempio di semplificazione stereotipata è stata la reazione fuori misura alla sentenza europea sul crocifisso nei luoghi pubblici o, addirittura,  la proposta della Lega di inserirlo direttamente nella bandiera italiana. E’ questa l’“identità cattolica” della nazione che alcune forze politiche vorrebbero celebrare? E’ allora bene sapere che l’Italia, come gli altri paesi europei, è diventata – che lo si voglia o no – sempre più plurale sul piano religioso e non solo per l’apporto delle religioni degli immigrati, ma anche per le nuove forme di spiritualità che si diffondono  nei paesi più secolarizzati. Quell’“identità cattolica” senz’anima, brandita come una clava, serve solo a semplificare una realtà complessa. Meno male che le guerre di religione, che hanno insanguinato per secoli l’Europa, hanno alla fine generato i propri antidoti, ossia le costituzioni moderne nate per difendere la libertà religiosa (di tutti, cattolici e non, anche di chi non professa alcuna religione).

Altri due effetti mediatici sono l’edulcorazione sentimentale e il risentimento tribale,  due facce della stessa medaglia e che completano e rafforzano la semplificazione stereotipata. I sentimenti messi a nudo in pubblico (si piange, ci si lamenta, si inveisce e ci si riappacifica sulla scena televisiva) sono diventati uno sconcertante espediente per dare visibilità pubblica alle emozioni private che – miracolosamente – redimono e riappacificano, mostrando un’Italia unita dal voyeurismo sentimentale. E’ questa l’identità narcisista che vogliamo celebrare?
Il risentimento tribale è un meccanismo più sofisticato, ma dello stesso tipo: il nostro “noi” si costruisce anche presentando nei talk show e spettacoli vari, non persone vere, ma “maschere” teatrali, che accentuano ad arte diversità e fomentano contrapposizioni. Si basa sul livore dovuto all’impressione che altri, così diversi, possano avvicinarsi al nostro “cerchio tribale”, prenderci ciò che è nostro, scaldarsi al nostro fuoco. Ma attenti, gli altri – che lo si voglia o no – sono tra noi, non fenomeno passeggero, ma stabile presenza.  Con gli altri, nei loro vari gradi di diversità, dobbiamo convivere: è un’identità livorosa quella che vogliamo celebrare o un’identità aperta in una società aperta?