Dopo anni di ricerca d’archivio, interviste e di attesa il 6 luglio 2016 è stato finalmente pubblicato il cosiddetto Chilcolt Report: una inchiesta sul ruolo del Regno Unito nell’invasione e nell’occupazione dell’Iraq nel 2003. Il rapporto contribuisce a fare luce su un evento che segna in modo indelebile la storia internazionale dell’inizio del XXI secolo, e le cui conseguenze sono ben lungi dall’essere concluse.

Come si ricorda nell’introduzione, il governo britannico decise di intervenire formalmente il 17 marzo 2003 e rimase una potenza occupante fino al 28 giugno 2004, per restare poi nel Sud Est del Paese come responsabile della sicurezza. I risultati principali a cui è giunta la commissione d’inchiesta riguardano il fatto che l’intervento armato non rappresentava lo strumento «di ultima istanza» (last resort) per impedire lo sviluppo delle armi di distruzione di massa da parte di Baghdad; queste ultime non esistevano o comunque il governo iracheno era lontano dal poterle ricostruire dopo averle smantellate nel corso degli anni Novanta, come testimoniato dagli ispettori Onu guidati da Hans Blix. Le prove del possesso di armi di distruzione di massa erano false, costruite ad hoc, e il governo si affidò a queste ultime invece dei rapporti dell’Onu. Il Primo ministro Tony Blair convinse il governo a seguire gli Usa sempre e comunque, offrendosi nei fatti di coprire eventuali problemi di comunicazione e di «narrazione». Il Regno Unito non aveva una strategia credibile per il dopo-Saddam, né in termini di politiche di occupazione e gestione del Paese né in termini di equipaggiamento e preparazione del personale militare e civile.

Questo rapporto segue una serie di altre indagini che nel tempo hanno ricostruito buona parte del percorso politico che ha poi portato all’invasione e all’occupazione dell’Iraq. Non da ultimo, ricordiamo la superficialità con cui i responsabili della comunicazione - ancora prima dei servizi segreti - del governo Blair copiarono saggi e tesi di dottorato di giovani ricercatori per assemblare una narrazione credibile sulla minaccia incombente alla pace e alla sicurezza internazionale rappresentata dal regime di Saddam Hussein. Questo è il caso che coinvolse il dott. Ibrahim al Marashi in quel fatidico 2002-2003.

Che la guerra in Iraq del 2003 sia stata una catastrofe è fuori d’ogni dubbio. Vedremo se i suoi responsabili politici e militari saranno anche oggetto di un’azione legale per processarli per crimini di guerra. Personalmente lo spero.

La difesa di Tony Blair e del suo compagno d’avventure George W. Bush jr. risiede sempre nell’idea che l’Iraq e il mondo siano posti migliori e più sicuri senza Saddam Hussein. Certamente pochi lo rimpiangono per il suo governo dittatoriale. Ma questo non è mai stato il punto e l’obiettivo dell’invasione. Ricordiamo, infatti, che la narrazione con cui i due uomini politici cercarono di vendere la guerra al resto del mondo non riguardava la causa democratica, bensì le armi di distruzione di massa e la minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Quando fu chiaro che queste non c’erano, allora i soliti responsabili della comunicazione rispolverarono le idee neoconservatrici del regime change e dell’esportazione della democrazia: nella versione italiana di questa narrazione, ad esempio, l’allora ministro Gianfranco Fini definì nel 2004 i soldati italiani a Nassiriya «pacificatori» e non «pacifisti», giusto per attaccare la sinistra, il cattolicesimo di base e le grandi mobilitazioni per la pace pre- e post-invasione del 2003. Gli eventi successivi non portarono pace né in Iraq né nella regione, perché la stessa logica di conquista e annichilimento del nemico venne attuata in Libano nell’estate del 2006. Per i dirigenti anglo-statunitensi, l’Iraq doveva essere invaso per impedire che ritornasse a pieno titolo nella comunità internazionale come soggetto politico ed economico loro rivale. La strategia di contenimento degli anni Novanta stava per crollare a seguito dei nuovi legami con Siria, Turchia, Francia, Germania, Russia e Cina; considerate le sue risorse energetiche, la decisione di vendere petrolio in euro o in altre valute e non più in dollari statunitensi sfidava uno dei pilastri del ruolo globale degli Stati Uniti, ossia il nesso petrolio-dollaro.

Un punto sul quale il Chilcot Report è stato interrogato riguarda la possibilità che l’invasione del 2003 abbia avuto un ruolo nello sviluppo successivo dell’Organizzazione dello stato islamico (Islamic state, Is). Documenti e testimonianze qui negano l’idea che vi possa essere un collegamento diretto tra i due eventi, e verosimilmente nel 2003 come nel 2006 i dirigenti statunitensi e inglesi non pensavano alla costituzione di un soggetto politico come l’Is e al successo che avrebbe avuto in Iraq e in Siria. Del resto erano alle prese con la guerra contro al-Qaida in Iraq (e contro il suo leader al-Zarqawi), dalle cui ceneri poi nacque la successiva organizzazione dello Stato islamico. Quello però che difficilmente può essere negata è la responsabilità politica e storica dei governi statunitensi, britannici e dei loro alleati nell’aver contribuito in modo decisivo a creare le condizioni ottimali affinché un soggetto politico come Is potesse costituirsi in Iraq. Del resto, quello che era un nemico venne poi lasciato fare perché tornava utile al containment dell’Iran, almeno fino all’accordo sul nucleare del luglio 2015: un emirato arabo-sunnita, ferocemente anti-sciita, giusto nel mezzo dell’asse tra il Golfo e il Mediterraneo, come indicato dalla Defense Intelligence Agency ancora nel 2012. Le politiche anglo-statunitensi hanno fatto leva sulle divisioni etniche e confessionali del Paese nel tentativo di smantellare l’appartenenza dei cittadini a quella che se non poteva considerarsi una piena identità nazionale, era però certamente un senso di appartenenza a un spazio politico comune, dai confini territoriali ormai delimitati e nel quale esercitare la sovranità, o autodeterminazione. Le divisioni etnico-confessionali sono una (ripeto: una) delle caratteristiche del Medioriente che nel tempo hanno comunque saputo adeguarsi alla presenza di confini territoriali sempre porosi e molto più aperti di quanto gli europei non possano immaginare. La decisione di Washington, avallata da Londra, di esercitare il pieno potere a Baghdad nel 2003 fu un passaggio decisivo nel «Post-Conflict Period» (vol. 7 e 8 del report): sia per escludere la comunità araba-sunnita, i nazionalisti e i laici dal potere, sia per dare forma a un’architettura istituzionale basata appunto sugli elementi di divisione identitaria anziché di inclusione e condivisione, e che dunque legittima le forze politiche che se ne fanno promotrici. Questa è una delle eredità politiche che rimarranno impresse nella Storia: come quel «fardello» che tanti uomini bianchi come Tony Blair vollero portare nel nome della civiltà, la loro.

 

[Il presente articolo è apparso anche su mentepolitica.it]