Per chi si interessa alle culture giovanili, uno sguardo agli archivi del londinese Museum of Youth Culture permette di cogliere la variabilità delle forme con cui la relazione tra corpi e sottoculture giovanili si sviluppa. I materiali raccolti coprono un secolo di manifestazioni spettacolari, condivise dellз giovani britannichз, ma in queste immagini possiamo trovare corrispondenze con repertori stilistici rimodulati e contestualizzati a livello globale. Dalle esperienze mod a quelle raver, passando per le scene metal e clubbing, le appartenenze si incarnano attraverso vestiario, acconciature e posture, e i corpi si accordano di conseguenza.

Negli anni Ottanta si parlava a questo proposito proprio di “body-tuning”, per descrivere la capacità/necessità dei corpi individuali di modificarsi in relazione ai contesti sociali attraversati. Si tratta di una dinamica che tipicamente spinge verso la conformità – quindi verso la corrispondenza con gli ordinamenti di potere che regolano i mondi sociali – ma che, allo stesso tempo, può configurarsi come reazione espressa attraverso l’incorporazione di forme simboliche con cui distanziarsi, e in un certo senso proteggersi, dalle contraddizioni strutturali vissute sulla propria pelle.

Se il progetto del museo funziona bene in quanto archivio, perché costruito con grande attenzione all’eterogeneità delle grammatiche modellate dallз giovani che animano le sottoculture, dobbiamo riconoscere anche un altro suo valore. Alimentandosi di immagini raccolte da donatorз che mettono a disposizione parti della propria biografia, il catalogo rappresenta una sorta di diario collettivo delle esperienze sottoculturali giovanili e dei loro contesti di partecipazione, dai dancefloor dei club al fango dei festival estivi.

Di conseguenza, le immagini restituiscono un’ampia variabilità anche in termini di espressioni di genere. Vediamo corpi di ragazze, ragazzi e ragazzз intercettare diversi canoni stilistici e fondersi con questi. Un aspetto che potrebbe sembrare scontato e invece non lo è, se si considera come le scienze sociali, ma anche la stampa di settore, abbiano “tradizionalmente” interpretato l’evoluzione degli stili giovanili concentrandosi – per un certo periodo esclusivamente – sulla loro relazione con le rappresentazioni della maschilità.

Effettivamente, quando ci riferiamo per esempio alla putrescenza del punk, all’androginia del glam, alla muscolarità dell’hard rock o alla performatività del garage-surf stiamo molto probabilmente visualizzando una storia del corpo maschile, dimenticandoci che gli stili sono frutto della rielaborazione continua di soggettività che si distribuiscono lungo tutto lo spettro dell’espressività di genere.

Quando ci riferiamo alla putrescenza del punk, all’androginia del glam, alla muscolarità dell’hard rock o alla performatività del garage-surf stiamo molto probabilmente visualizzando una storia del corpo maschile

Questa lettura ci pare abbia a che fare con una certa inconsapevolezza dei saperi esperti (e in particolare delle scienze sociali) riguardo alle conseguenze “epistemologiche” del patriarcato in termini di naturalizzazione dello sguardo (prevalentemente maschio, cisgender e bianco), ma anche con la differente visibilità dei corpi maschili, femminili, queer e trans negli spazi pubblici.

Del resto, proprio dall’interno del collettivo dellз studiosз del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, la scuola che dagli anni Settanta ha introdotto nelle scienze sociali l’analisi semiotica e post-strutturalista delle sottoculture giovanili, Angela McRobbie denunciava l’incapacità di “vedere”, prima, e interpretare, poi, le espressioni stilistiche delle giovani. McRobbie suggeriva, allora, di prestare attenzione anche alle cosiddette “bedroom cultures”, sconfinando nella dimensione del privato per intercettare forme di partecipazione alle sottoculture meno spettacolari e lampanti di quelle maschili.

Orientando questa riflessione verso un contesto specifico, quello della sottocultura hip-hop, che nelle sue declinazioni più contemporanee mostra dinamiche di genere, e anche intersezionali, peculiari, possiamo forse concordare sul fatto che l’impulso iniziale sia piuttosto consueto: introducendo una serie di innovazioni tecnologiche, tecniche e stilistiche, un gruppo di maschi, questa volta neri, dell’underclass statunitense dà vita a fine anni Settanta a una sottocultura destinata a una traiettoria di emersione che la porterà, nel giro di due decadi, a diventare un settore di traino dell’industria culturale globale.

Intrecciandosi alle culture della strada e ai relativi conflitti di potere, la corrente “gangsta” dell’hip-hop si è progressivamente imposta perché considerata la miglior espressione delle esperienze di “vita vera”. Nel suo affermarsi, il gangsta rap ha contribuito a codificare un canone stilistico machista, nel quale oro, armi e prestanza fisica monopolizzano l’attenzione. Sullo sfondo restano strade, ville (quando “ce la si fa”), automobili e corpi femminili iper-sessualizzati. Ma è proprio da questo contesto che, progressivamente, le artiste ritagliano uno spazio di visibilità e autodeterminazione che permette innanzitutto di emanciparsi dai limiti prescritti ai corpi-accessori.

A partire dagli anni Duemila una generazione di artiste nere, Beyoncé, Nicki Minaj e Cardi B solo per citare i nomi più noti, raggiunge i vertici del sistema economico hip-hop, rivendica esplicitamente potere di autodefinizione, esprimendosi attraverso forme corporee e stilistiche non necessariamente aderenti al canone modellato dallo sguardo maschile egemone. Sono corpi eccedenti rispetto alla magrezza controllata che domina le rappresentazioni mainstream, ma soprattutto sono corpi desideranti che abitano lo spazio pubblico, così come quello simbolico del business.

Certamente resta il rischio che l’equilibrio tra autodeterminazione e riproduzione di un approccio “maschile” e neoliberal al successo si sbilanci verso il secondo. Una parte del femminismo contemporaneo mette in luce come queste artiste abbiano in un certo senso ceduto al suprematismo capitalista bianco per ottenere successo individuale, rischiando di svilire il potenziale della propria “agency” – ossia la capacità degli individui di agire sottraendosi ai condizionamenti strutturali – e conformandosi alle aspettative del maschio bianco.

In un seminario pubblico del 2014, l’attivista e studiosa femminista bell hooks costruiva la sua riflessione su questo tema attorno alla domanda “whose booty is this?”, per metterci in guardia sui rapporti di potere che intervengono nella costruzione sociale delle corporeità (femminili e nere nello specifico) e che, in collaborazione con il capitalismo, impediscono ai corpi di sottrarsi dal dominio.

Su un altro versante, ma sempre nell’area del pensiero femminista, altre letture rivalutano le strategie di uso del corpo di questa generazione di artiste, concentrandosi sulle loro componenti "campy", e quindi sul valore emancipatorio dell’applicazione di (auto)ironia nelle rappresentazioni.

Negli anni Sessanta Susan Sontag definiva "camp" tutto ciò che è innaturale e volutamente esagerato; nel corso del tempo la semantica del termine si è estesa fino a comprendere le diverse forme di rappresentazione parodistica e queer della società.

In questa prospettiva, giocare con i simboli di oppressione acquisisce potenziale liberatorio e attraverso il ribaltamento dello stigma in emblema si perseguono forme di disentificazione dai canoni egemonici.

Possiamo leggere in questo senso, ad esempio, il largo uso che Nicki Minaj fa dei colori pastello e del rosa per svuotare l’immaginario Barbie dei suoi significati originali. Ma in modo ancora più potente sono la costruzione e l’uso del corpo femminile a mostrarsi dirompenti: twerkare esibendo fieramente corpi abbondanti diventa allora un modo per rivendicare controllo sugli immaginari sessuali e trasgredire le regole estetiche in società grasso-fobiche.

Seppur con dinamiche necessariamente differenti in relazione alla linea del colore, possiamo immaginare una contestualizzazione all’ambito italiano, dove la scena trap/drill, una derivazione della sottocultura hip-hop, assume sempre più i tratti di fenomeno culturale e commerciale di grande rilevanza. Le recenti classifiche di ascolti per il 2022 hanno confermato la tendenza ormai consolidata di dominio del mercato discografico italiano da parte di artisti maschili e riconducibili all’area trap (vedi Sfera Ebbasta, Lazza, Rkomi e thasup).

La trap/drill è forse il contesto nel quale artiste italiane trovano oggi maggiore visibilità e spazio, certamente in modo molto più evidente di quanto non fosse successo con il rap old-school

A fronte di un successo molto connotato in termini di genere maschile, la trap/drill è forse il contesto nel quale artiste italiane trovano oggi maggiore visibilità e spazio, certamente in modo molto più evidente di quanto non fosse successo con il rap old-school. Con i propri testi, artiste come Chadia Rodriguez, Beba, Anna, Priestess e Grelmos esprimono un punto di vista sulla condizione femminile, e in particolare sulla sessualità, che rappresenta un inedito per la canzone italiana tout-court.

In termini di espressione dello stile sottoculturale, il potenziale emancipatorio della trap non sembra però corrispondere a un altrettanto profondo lavoro sulla rappresentazione dei corpi femminili delle artiste, che tendono ad adeguarsi al canone dominante, diversamente da quanto facciano i corrispettivi maschili, che trasgrediscono continuamente le regole del buon gusto, così come i confini simbolici tra simboli delle sottoculture (vedi in particolare la questione del viso tatuato).

La drill è oggi il genere musicale con maggior presenza di ragazzi di seconda generazione nel panorama italiano ma, appunto, in questa fase si tratta quasi esclusivamente di artisti maschi. I processi di “scorporamento” del condizionamento dello sguardo maschile richiedono un lungo percorso di consapevolezza e (ri)acquisizione di potere, e probabilmente impatteranno sempre più anche sulla dimensione estetica delle autorappresentazioni delle trapper, magari sulla spinta emancipatoria e sovversiva che deriva dall’intersezione con altre dimensioni.