Un Paese ancora senza pace. A più di una settimana dagli attentati che hanno causato 253 vittime e più di 500 feriti, in Sri Lanka è stato revocato il blocco dei social network. La decisione giunge all’indomani del divieto presidenziale di indossare indumenti, come burqa e niqab, che coprono il volto. Le ragioni riguardano evidentemente la sicurezza pubblica, nonostante alcuni abbiano ironicamente fatto notare che gli attentati sono stati compiuti da un gruppo di uomini in jeans e cappellini da baseball.

Otto sono le esplosioni avvenute durante il giorno di Pasqua. Quattro degli attentati si sono verificati a Colombo, dove la prima esplosione è avvenuta poco prima delle 9 all’hotel Shangry-La, in concomitanza con gli attacchi alla chiesa di St Antony e a quella di St Sebastian, a Negombo. Poco dopo le 9 i media hanno riportato di una grande esplosione sulla costa orientale dell’isola, alla chiesa Zion di Batticaloa. Le bombe in due degli hotel più importanti della capitale, il Kingsbury e il Cinnamon Grand, sono scoppiate a cinque minuti di distanza l’una dall’altra. Nel pomeriggio sono state registrate altre due esplosioni, al Tropical Inn Guesthouse di Dehiwala (anche se secondo le indagini l’obiettivo iniziale sarebbe stato un altro grande hotel, il Taj), e in un complesso residenziale di Dematagoda.

Dishan Galison, il proprietario di un hotel di lusso di Negombo, ha dichiarato che molti alberghi, tra cui quelli colpiti, avevano in programma dei brunch pasquali, destinati alla clientela internazionale e a quella cristiana locale.

“Non assistevamo a un orrore di questo genere da 10 anni”, aveva detto il segretario alla Difesa Hemasiri Fernando: non si registrava un numero così alto di vittime dalla fine della guerra civile che aveva dilaniato lo Sri Lanka per quasi trent’anni.

La guerra civile tra i Tamil indipendentisti e il governo Srilankese era terminato nel 2009, ma la fine del conflitto aveva portato accuse di genocidio e crimini di guerra all’allora presidente Mahinda Rajapaksha, oggi leader dell’opposizione. Gli anni successivi al conflitto avrebbero dovuto essere dedicati a un lungo processo di pace che, però, un decennio dopo, sembra ancora parziale. Lo Sri Lanka non ha fatto mai i conti con i modi con cui si è concluso il capitolo più doloroso della storia: 40 mila civili uccisi soltanto nelle ultimi fasi del conflitto, e decine di migliaia di scomparsi le cui famiglie domandano ancora risposte. 

Inoltre, la conclusione di un conflitto trentennale non mette fine, da un giorno all’altro, ad antichi dissapori. Dal 2009 ci sono stati molti episodi di vandalismo su moschee, chiese e statue buddiste. Nel marzo 2018 ci sono stati forti scontri tra musulmani e sinhalesi nella parte centrale dello Sri Lanka, scontri che hanno portato il governo a silenziare i social network anche in quell’occasione, nella speranza di limitare la disinformazione e ulteriore odio.

Quanto sia difficile ottenere giustizia per i crimini di guerra lo dimostra la cronaca recente: Gotabaya Rajapaksha, fratello dell’ex presidente Mahinda e a capo delle forze armate durante il suo governo, sarà imputato in due cause civili in California, tra cui quella per l’uccisione di un importante giornalista investigativo srilankese. Si tratta di una svolta, considerando che sarebbe oggi impossibile perseguire quei crimini in uno Sri Lanka ancora fortemente influenzato dalla famiglia Rajapaksha.

Gotabaya Rajapaksha aveva iniziato negli scorsi mesi il processo di rinuncia alla cittadinanza statunitense, scelta che aveva portato molti a mormorare di una sua possibile candidatura alle prossime elezioni presidenziali. La conferma di quelle voci è giunta negli scorsi giorni proprio dal diretto interessato, che non avrebbe potuto scegliere un momento migliore per prospettare al Paese un futuro di pace.

In un primo momento gli attentati di Pasqua non erano stati rivendicati da alcun gruppo terroristico, tuttavia il ministro Rajitha Senaratne aveva dichiarato che gli autori appartenevano a “un’organizzazione locale”. Si riferiva al National Thowheeth Jama’ath, un gruppo estremista islamico piuttosto giovane, che fino a quel giorno non sembrava così organizzato da riuscire a mettere a punto un piano terroristico così ben studiato.

La rivendicazione da parte dello Stato Islamico è invece giunta a tre giorni dagli attentati, una tempistica insolita per l’organizzazione terroristica, che lo ha annunciato attraverso il proprio media network Al Furqan. Sulla stessa piattaforma lunedì scorso è apparso un video del capo dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, il quale in un audio al termine del filmato afferma che gli attacchi in Sri Lanka sono una vendetta per i loro morti di Baghouz, l’ultima roccaforte nella Siria orientale.

Il primo ministro Ranil Wickremesinghe aveva confermato alla stampa la notizia secondo cui il governo sarebbe stato informato con largo anticipo di possibili attentati. Un’agenzia di intelligence straniera aveva informato il 4 aprile scorso gli uffici in cima alla scala di comando di possibili attentati a danno di chiese e hotel. Il primo ministro ha però negato che lui o i suoi ministri fossero a conoscenza di questo dossier. Nei giorni scorsi Wickremesinghe aveva anche dichiarato ai media che pur essendo a conoscenza del rientro di foreign fighters sull’isola, il governo non aveva potuto procedere ad alcun arresto perché “aderire a un’organizzazione terroristica straniera non è contro la legge”.

Le dichiarazioni fatte da Wickremesinghe rivelano quanto siano tesi i rapporti tra il primo ministro e il presidente Sirisena. Lo scorso anno, gli screzi tra i due avevano portato Sirisena a revocare Wickremesinghe dall’ufficio di primo ministro, e a nominare l’ex presidente nonché leader dell’opposizione Mahinda Rajapaksha. Questo gioco di poteri nasconde motivazioni economiche oltre che politiche: Sirisena avrebbe voluto alla guida del governo un primo ministro filocinese, come Rajapaksha, anziché uno filoindiano, come Wickremesinghe. La crisi politica che incombeva sul Paese, con grida di incostituzionalità e golpe da più parti, si è risolta a dicembre solo perché Rajapaksha non aveva in Parlamento i numeri per guidare un governo stabile.

In Sri Lanka la situazione politica è stabile quanto i rapporti tra le diverse componenti etniche: su quasi 22 milioni di abitanti, il 70% è di etnia sinhalese, a maggioranza buddista, il restante è composto da Tamil Indiani 5%, Tamil Srilankesi 12%, (entrambi in maggioranza induisti, ma con una componente cristiana non indifferente). I musulmani sono intorno al 7% della popolazione, da un punto di vista etnico e linguistico sono Tamil, ma non si considerano Tamil.

I rapporti tra le diversi componenti della popolazione sono sempre state a dir poco precarie, ma la fine della guerra e un’economia in ripresa avevano portato a un collettivo auspicio di coesione nazionale. Tuttavia, gestire tanta diversità in un Paese così piccolo si conferma un’impresa difficile, soprattutto considerando la presenza di frange estremiste in tutte le parti in causa.